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Opinioni

FARE STORIA E NON REDUCISMO

FRANCO GIANNANTONI - 20/11/2011

 

il Sacrario dei Caduti sul Monte San Martino in Valcuvia

Sosteneva Roberto Battaglia, severo studioso della Resistenza Italiana, che per conoscere con passione e verità quella grande pagina della storia nazionale non fosse necessario celebrarne sempre la vittoria ma occorresse penetrarne le pieghe interne, coglierne i vari aspetti, sottolinearne le contraddizioni, significare anche i momenti di difficoltà e di debolezza insiti in una vicenda che vide protagonisti, uomini, donne, ragazzi con il loro bagaglio di entusiasmo ma anche di errori, di cedimenti, di tradimenti, di visioni strategiche diverse spesso opposte. Insomma trattare la Storia con il rispetto che essa meritava e con verità perché si potesse trarre un insegnamento che durasse a lungo e non un’emozione passeggera e alla fine di scarsa influenza.

Non sempre si è seguito il suggerimento di Battaglia imboccando pervicacemente la strada della retorica reducistica e un po’ bolsa soprattutto quando si trattò di bilanciare negli anni del centrismo il tentativo di mettere in un angolo le forze politiche della sinistra in modo indiscutibile in prima linea (rapporto da uno a dieci) nella lotta di Liberazione.

L’osservazione ancora oggi disturbante tanto che appare respinta o male accettata, vale per la battaglia “partigiana” del Monte San Martino di cui si è celebrato in questi giorni il 68° anniversario (13-15 novembre 1943) combattuta fra uno sparuto gruppo di militari e di civili raccolti a Vallalta e sulla vetta, fortificazione e camminamenti della “linea Cadorna” 1915-1918 e circa duemila tedeschi del 15° Reggimento di polizia del colonnello von Braunschweig giunti da Milano, supportati da militari tedeschi del Comando Doganale di Frontiera di Varese, da avieri appiedati dell’esercito repubblichino e da un centinaio di carabinieri (ex-reali), utilizzati per imbavagliare in un cordone sanitario le vallate circostanti dopo aver arrestato ed internato sino alla fine delle operazioni nelle chiese e nelle canoniche parrocchiali della Valcuvia, tutti i ragazzi e gli uomini dai quindici ai 7settant’anni.

Proviamo allora a fare un po’ di Storia per onorare in modo compiuto i caduti di quelle giornate (i tedeschi usarono anche aerei da bombardamento per stanare i valorosi, colpendo i fuggiaschi lungo i tratturi) senza che questo voglia significare in alcun modo irrisione né sottovalutazione di quell’immane sacrificio. Al contrario.

Primo: la formazione “Regio Esercito Italiano-Gruppo 5 Giornate del San Martino” “Non si è posto fango sul nostro volto” del tenente colonnello dei bersaglieri Carlo Croce, aveva raggiunto poco dopo la metà del settembre 1943 da Porto Valtravaglia, sede del presidio, la cima del monte valcuviano con una ventina di unità dei Reggimenti di Fanteria (dal centinaio iniziale disperso lungo il trasferimento) cresciuta nei giorni successivi sino a toccare il numero di centosettanta per l’arrivo di civili fra cui moltissimi milanesi sfuggiti ai primi bandi di Salò, alcuni varesini fra cui Sergio De Tomasi e di militari alleati fuggiti dai “campi di concentramento Mussolini” e diretti in Svizzera (dopo un passaggio a Caldè nel Centro assistenza del Clnai nella villa dell’ingegner Giuseppe Bacciagaluppi). Croce aveva attribuito alla posizione acquisita il significato preciso di “Zona d’Onore” (appare nella carta da lettera ufficiale), una sorta di “zona liberata” o comunque da difendere. Una fetta d’Italia libera. Classica guerra di posizione.

Secondo: la strategia di attendere il nemico a Vallalta, lungo i crinali della montagna e in parte in vetta, con Carlo Croce che riteneva illusoriamente gli Alleati ormai vicini (utilizzava una radio trasmittente in contatto con Algeri e Monopoli fornita da Giovanni Tredozi, un coraggioso radiotecnico-patriota di Induno Olona e fatta funzionare dal sud africano Harwey Sinclair, uno dei prigionieri scappati dopo l’8 settembre dalla prigionia fascista) rappresentava l’esatto contrario di quello che doveva fare la Resistenza, attaccare e rifluire, mordere e fuggire, secondo i dettami della guerriglia classica che si dimostrò formula ardita, sanguinosa ma vincente.

Terzo: l’educazione militare di Carlo Croce, sottufficiale nella prima guerra e richiamato nel ’42 per la campagna di Russia, influì inevitabilmente sul comportamento generale del gruppo. Il Croce trasformò l’esperienza del San Martino, fatto salvo il gesto eroico di porsi in armi contro l’occupante germanico, in uno spaccato di autentica vita militare come se la caserma fosse stata provvisoriamente trasferita di sede. Così sopravvisse tutto quell’armamentario militaresco che la Resistenza “per bande di guerriglia” avrebbe spazzato via come del tutto inutile, dall’ alzabandiera con i patrioti schierati il mattino sull’attenti, alla preghiera mattutina, al giuramento di fedeltà alla causa al momento dell’ingresso in formazione, alla gerarchizzazzione per gradi del Gruppo, ai permessi per scendere a valle “in missione” o per visitare la famiglia (questo avrebbe provocato fughe, infiltrazioni e tradimenti alla fine decisivi con, il caso più clamoroso, Francesco Calastri, luinese, che fece strada sulla intricata montagna agli aggressori), alla punizione con tanto di giudizio di una Corte Marziale di chi aveva violato gli ordini superiori attaccando, com’era accaduto a Mesenzana per esempio, i mezzi tedeschi in transito lungo la strada provinciale (Amedeo Rossin venne infatti condannato a morte ma riuscì a fuggire dal piccolo recinto di internamento per cadere fucilato il 19 dicembre 1943 all’Arena di Milano dai nazifascisti, assieme ad un altro fuggiasco del San Martino, Fedele Cerini, pure condannato alla pena capitale per ruberie).

Quarto: fatale fu alla fine l’indisponibilità ad accogliere l’invito dei rappresentanti del Cln di Varese (Luigi Ronza, comandante militare del futuro Cvl) ma anche quello del commissario politico garibaldino valsesiano Vincenzo Moscatelli recatosi in motocicletta sul San Martino, di abbandonare quella pericolosa e violabile posizione per disperdersi a valle onde evitare un prevedibile accerchiamento quando si fosse manifestato.

Quinto: la proposta non era stato recepita perché, come in altre zone del Nord Italia, la “macchina badogliana” che aveva il compito di “normalizzare” ogni attimo di lotta armata per adeguarla alla linea attendista degli Alleati, era entrata in azione. Nell’intero Varesotto e nel vicino Verbano aveva infatti preso a muoversi Girolamo Albrizio La Neve alias “maggiore Biancardi”, colonnello degli alpini, ufficiale del Sim, il servizio informazione militare collegato con il Regno del Sud e il Comando alleato, subentrato al vertice del Comando Militare del Cvl dopo l’arresto dell’ingegner Luigi Ronza. L’agente Sim “Biancardi” era stato fra coloro che avevano convinto Croce della bontà e della correttezza della sua decisione. Gli Alleati erano ad un passo e tanto valeva non alimentare azioni inconsulte, feroci, estreme.

Quanto detto rientrava nella “doppiezza” della Resistenza. Da un lato la Resistenza per lo Stato nuovo che troncasse ogni legame con la politica e la società prefascista, una Resistenza guerreggiata con la partecipazione dei partiti politici clandestini dal Pci alla Dc sino anche a punte monarchiche, vedi la banda a Mongivetto di Edgardo Sogno, che non dava tregua al nemico, con azioni ardimentose ed efficaci nel solco di un progetto che avrebbe condotto ad una Liberazione voluta da un “esercito di popolo” in una visione di “guerra grossa” non al traino alleato, lettura questa prospettata ed auspicata con forza da Ferruccio Parri, capo del Cvl nazionale, e rimarcata nell’incontro con Allen Dulles (Oss) e John MacKaffery (Soe) a Villa Nathan-De Nobili di Certenago (Lugano) in quell’autunno del ’43; dall’altra, quella Alleata, per l’appunto, dove gli italiani avrebbero dovuto costituire una sorta di “ruota di scorta” limitandosi ad azioni isolate, sabotaggi, “intelligence” sempre agli ordini del Comando anglo-americano. Sotto questa lettura si stagliava il futuro del Paese, libero da ogni condizionamento di marca comunista, che comunque non ci sarebbe stato. Infatti al rientro dall’Urss nel marzo del ’44 a Napoli del segretario del Pci Palmiro Togliatti, l’ordine fu quello di aprire le porte delle formazioni partigiane, anche garibaldine, agli ufficiali del Re e ai quadri monarchici, rinviando la questione istituzionale alla fine del conflitto.

Il Gruppo di Carlo Croce (medaglia d’oro al Valor Militare della Resistenza) interpretò con indubbio coraggio e sprezzo del pericolo la visione attendista. Rimase in vetta e, quando il nemico apparve nella vallata e poi nelle boscaglie in tutta la sua potenza, non poté far altro che opporre una tenace resistenza per poi cadere. Un manipolo di prodi salì in vetta al comando del comasco Alfio Manciagli “Folco” per tentare di bloccare l’accerchiamento. Non fu possibile. Al grido di “Avanti Savoia” tutti furono prima catturati e poi fucilati. Così accadde a chi fu messo sui contrafforti della montagna con improbabili mitragliatrici. Caddero a grappoli. Qualcuno non ce la fece, si arrese e morì in Germania in qualche campo d’internamento. Croce e una quarantina di ufficiali, sottufficiali, soldati semplici, civili, e il cappellano don Mario Limonta, attraverso le linee Cadorna, raggiunsero di notte il valico di Lavena-Ponte Tresa e passarono in Svizzera non senza, altra gemma della tradizione militaresca, aver rivolto un estremo sguardo all’Italia che lasciavano, scattando rigorosamente sull’attenti.

Carlo Croce, contattato dal generale Tancredi Bianchi, destrorso Delegato militare del Governo del Sud in Svizzera, nel luglio 1944, accolse l’invito di raggiungere la Valtellina per guidare nel segno badogliano le formazioni degli “elettrici”, valligiani, dipendenti delle grandi Centrali ed ex alpini raccolti nella Divisione Alpina Valtellina in funzione anticomunista, comandata dal capitano Giuseppe Motta “Camillo” ex ufficiale del Sim, collega del “Biancardi”. Altro gesto generoso che pagò con la vita: catturato e ferito all’Alpe Painale sopra Sondrio il 13 luglio 1944, spirò a Bergamo il 24 luglio celando il suo vero nome sotto quello di “Carlo Francesco Montuoro”. Così fu sepolto, come ricorda la sua biografa Francesca Boldrini, nella fossa n. 30 del Cimitero di Bergamo. Il 23 giugno 1945 fu portato a Milano. Dal 1963 è nel Sacrario in vetta alla “sua” montagna.

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