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Divagando

LA TRISTE FINE DEL NOSTRO TEATRO SOCIALE

AMBROGIO VAGHI - 22/02/2013

La facciata del vecchio “Sociale”

Trascorrono anniversari lieti o tristi per la città. Tra quelli tristi mi pare vada ricordato quello della definitiva scomparsa del nostro vecchio Teatro Sociale. Sono passati esattamente sessant’anni da quel 1953 quando, insieme a quanto rimaneva dei muri del teatro, le ruspe distrussero in pochi giorni i sogni e i lieti ricordi di tanti varesini. A zonzo con la memoria possiamo in qualche modo riandare a come la città visse l’avvenimento. Direi in modo rassegnato, sia tra la gente che da parte del massimo organo amministrativo. Solo qualche eco in un sonnacchioso Consiglio comunale dell’epoca dominato da una maggioranza “bulgara” come diremmo oggi. Ventisei consiglieri eletti nelle file della Democrazia cristiana coi rimanenti quattordici suddivisi tra socialisti, comunisti, azionisti, monarchici, liberali, missini. Evidentemente un Consiglio in pieno apprendistato democratico davanti alle tante prove che Varese gli sottoponeva.

Diversi gli umori e gli interessi dei cittadini. I più anziani ricordavano con molta nostalgia i fasti del “Sociale”, quando da Varese transitavano le più rinomate compagnie filodrammatiche di giro. Quando alcune opere liriche vi trovavano addirittura la prova prima di essere date alla Scala o al Lirico di Milano. E poi, concerti, balli, tombolate benefiche. Insomma un luogo per ogni momento di incontro culturale o ricreativo della vita cittadina. Non solo frequentato dalle élite e dalla borghesia cittadina, quella che in definitiva possedeva in condominio “il Sociale”, proprietaria o affittuaria dei palchi (“i palchettisti”). Un luogo di ritrovo anche prettamente popolare, diremmo interclassista. Un provetto operaio-carrozziere, socialista, mi parlava dei grandi veglioni carnevaleschi quando il giovedì e il sabato grassi egli ballava fino al mattino al suono della banda cittadina, talvolta accanto ai padroni della sua fabbrica e altri noti maggiorenti varesini. Tempi di una comunità certamente meno separata.

Ovviamente più distaccato era l’atteggiamento di noi giovanotti alle prime sigarette. Del “Sociale” avevamo al massimo intravisto muri nudi e un tetto sfondato gettando lo sguardo attraverso gli interstizi della palizzata che proteggeva l’impianto da anni in disuso.

Per noi il teatro era l’ “Impero” dove oltre al cinema si potevano vedere ottimi spettacoli di prosa, operette, grandi riviste di Totò o Macario con le loro donnine. Talvolta anche qualche bella opera lirica. Ricordo un buon Barbiere di Siviglia con il grande baritono Gino Bechi ancora al principio di carriera.

Ma Varese non se la prese molto. Si accorse dopo, con ritardo, di quanto aveva perso. Forse pensava di riavere un nuovo e moderno teatro cittadino entro qualche anno. Invece di anni ne sono trascorsi sessanta sempre alla rincorsa di succedanei con un teatro-tenda eretto a Casbeno, un utilizzo estemporaneo del Palazzetto dello Sport, e un tendone con pretese teatrali come l’attuale di piazza Repubblica. Parole tante e progetti numerosi. I fatti sono ancora da attendersi. Si aspetta che venga un privato a risolverci il problema finanziando l’operazione.

Eppure negli anni il Comune di Varese ha pur saputo trovare i soldi per lo Stadio di Masnago, per il palazzetto Oldrini, per il palaghiaccio, privilegiando strutture per lo spettacolo sportivo. Altri interessi, altra cultura. Questo mentre città capoluogo lombarde hanno curato, trasformato o recuperato i loro luoghi di distinzione culturale. Como il suo Teatro Sociale, Pavia il Fraschini, Cremona il Ponchielli, Mantova il ligneo Teatro Scientifico, gioielli con interni settecenteschi come lo era il nostro. Una perdita per Varese ancora più dolorosa e disdicevole se pensiamo alla ricchezza di strutture comunali o associative pure presenti e salvate nella nostra provincia, come il “Sociale” a Busto e quello di Luino, il “Condominio” di Gallarate e il “Pasta” di Saronno. Addirittura nelle valli la tradizione teatrale è stata tenuta in vita con piccole sale MAGAri per iniziativa dei Circoli cooperativi o Mutue operaie come a Ferrera, a Grantola, a Marchirolo e Cadegliano… O a Comerio.

La distruzione del teatro Sociale ha purtroppo portato via un altro angolo della vecchia Varese, piazza Giovine Italia ha perso gran parte della sua caratteristica di luogo urbano diventando una comune strada di scorrimento. Accanto alle case d’epoca di tre piani è sorta sul sedime del “Sociale” una palazzata di sei piani, con una facciata anonima che forse qualche docente di architettura considera “pulita” ma che tale non è nel contesto in cui è sorta, al di là della speculazione edilizia realizzata dai promotori. Sei piani di cemento confinanti e incombenti sul vecchio ospedale della città che tuttora, nel giardino interno, nasconde un gioiellino di antichi percorsi colonnati.

Dall’operazione del Teatro Sociale possiamo dire che è nata in quel comparto cittadino la catena di anonimi palazzi disseminati nelle vie Rossini, Puccini e più in là fino a via Dandolo e alla piazza del Tribunale. Colate di cemento che in partenza, secondo le norme di Piano regolatore, dovevano essere al massimo di sei piani fuori terra ma che immancabilmente sono diventati di sette e anche otto, grazie ai cosiddetti sotto tetti abitabili spacciati per mansarde. Opere di maldestri epigoni del grande architetto parigino Mansard del quale non possedevano certo né la raffinatezza né l’eleganza. Fino ad arrivare a quella muraglia di cemento di dieci e più piani permessa e costruita nella zona viale Milano-via Rainoldi distruggendo il secolare parco della villa Grassi. Uno scempio che turba la linea d’orizzonte di Varese da qualsiasi punto la si traguardi.

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