Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Storia

I PRETI, MINACCIA PER LA REPUBBLICA DEL DUCE

FRANCO GIANNANTONI - 15/03/2013

Un notiziario del 1° marzo 1944 della Guardia Nazionale Repubblicana di Varese, la polizia della Repubblica Sociale Italiana, inviato direttamente a Mussolini nella sua sede del lago di Garda, esprimeva la posizione sul clero locale nei confronti del regime di Salò. La GNR soleva inviare ogni giorno dispacci da ogni sede. Era l’orecchio lungo del fascismo seconda maniera, se si vuole più feroce del primo. La raccolta completa dei bollettini GNR fu resa pubblica dalla Fondazione “Luigi Micheletti” di Brescia, la città dove sorgeva il Comando Generale della Guardia. Il giudizio della gerarchia varesina guidata dal tenente colonnello Elia Caldirola era stato molto pesante. Il clero era una mina vagante, non stava alle regole, soprattutto quella periferica fatta dai parroci dei paesi lungo la fascia confinaria, etichettati come veri “banditi”, gente da tenere sotto stretto controllo, da cui diffidare. Se il caso da mandare in galera. “Un ambiente – aveva sottolineato il notiziario di quella lontana primavera – ancora diviso e proclive ad avversare il governo repubblicano sociale e il partito fascista è quello del clero. In una retata di giovani renitenti alla leva, compiuta recentemente, tutti i fermati, circa 150 furono trovati in possesso della tessera delle associazioni cattoliche”.

Dal merito del messaggio ad arrivare alle varie parrocchie per attribuire le responsabilità, il passo era breve. La Chiesa non era dunque accusata solamente di avversare il programma della RSI ma di sabotarlo, invitando la gioventù alla diserzione e a raggiungere le montagne del Varesotto e del vicino Piemonte per dare corpo alle bande partigiane.

Prima di questa segnalazione gli interventi erano stati rari. Una “lettera riservata” del Commissario Prefettizio di Gallarate Angelo Antonio Bianchi del 18 gennaio 1944 diretta al Commissario di Pubblica Sicurezza e ai Carabinieri della città, era stato il fatto più significativo. Il gerarca Bianchi aveva infatti ordinato di raccogliere notizie sul conto di don Pietro Cazzulani, 44 anni, di Legnano, colpevole di aver invitato i fedeli in un sermone in Basilica a non leggere “Crociata Italica”, un periodico politico-cattolico stampato a Cremona, sotto l’egida dello squadrista Roberto Farinacci e diretto da don Tullio Calcagno “un sacerdote sospeso a divinis” dalla Chiesa di Roma che non aveva mai riconosciuto la RSI. “Poiché – aveva precisato Bianchi – il settimanale in parola è diretto e redatto da sacerdoti che si sentono anche figli della terra che ha dato loro i natali e che amano la loro Patria, prego di indagare allo scopo di conoscere se effettivamente il Predicatore (nda: Cazzulani) ha detto quanto mi è stato riferito”.

“Crociata Italica” era un fogliaccio fascista (un suo collaboratore, tale don Walter Oliva, venne infiltrato addirittura nel “Luce” di monsignor Sonzini che non poté opporsi, subendo una serie di articoli apologetici e razzisti). Il suo direttore, don Calcagno, il 29 aprile 1945 fu fucilato dai partigiani a Milano presso il Duomo con il cieco di guerra Carlo Borsani.

Ma fu il marzo del ’44 che riservò al clero le maggiori sorprese. Fu in quei giorni che il Capo della Provincia di Varese Mario Bassi (il prefetto della RSI) aveva invitato tutti i Podestà a dare informazioni sull’attività dei sacerdoti. Si era trattato di un sondaggio esplicito per capire l’aria che tirava fra i preti compresi i bollettini parrocchiali definiti dalla propaganda “viscidi come melma, velenosi come serpi, ringhiosi come cani, duri come marmo e vuoti come zucche”.

Bassi aveva scritto testualmente: “In merito all’atteggiamento del clero occorre che io conosca i nominativi dei sacerdoti e l’esercizio delle loro funzioni nelle relative chiese e parrocchie. Precisatemi inoltre se esistono oratori e organizzazioni cattoliche, da chi siano dirette, con quale criterio e indirizzo e a quale sfondo siano volte, come siano seguite dalla gioventù e dalla popolazione. Necessita inoltre esprimere il proprio giudizio e non limitarsi a una semplice affermazione”.

La decisione di Bassi non era stata casuale. Va bene che la Santa Sede non avesse riconosciuto la RSI ma che la RSI al punto 6 del Manifesto di Verona aveva fatto il contrario (la Costituzione della Repubblica del duce aveva infatti affermato che la religione cattolica apostolica romana è la religione di Stato”) ma, insomma, un’occhiata a questi signori dalla tonaca nera, spesso lisa per l’uso e la mancanza di soldi, andava data. Le voci che circolavano erano preoccupanti: il basso clero era schierato coi partigiani, i parroci dell’alto Varesotto nascondevano i renitenti e li aiutavano a raggiungere la Svizzera, peggio ancora la Repubblica dell’Ossola e tenevano addirittura i rapporti con le loro famiglie. Altri ancora nelle città e nei paesi erano collegati con le centrali eversive, fungevano da informatori, non esitavano a sfidare i controlli della polizia.

Gentaglia. Qualcuno sotto la spinta poliziesca era finito dentro malgrado il regime facesse di tutto per ammonire il popolo del rischio che correva. Il 13 marzo il federale di Busto Arsizio Sandro Mazzeranghi, un vero boia, aveva fatto distribuire un volantino in migliaia di copie: “Chi non benedice e non si inchina alle bandiere della Patria – era scritto – agitate dall’intrepida gioventù repubblicana che corre a Roma contro i barbari anti-cattolici, a fare sacrificio di sangue per riscattare l’onore nazionale e salvare la sede millenaria dei Papi, è un bastardo scaduto dalla Grazia e abbandonato da Dio”.

Non ci sarà verso. Quello che venne a ragione definito il “basso clero”, era rimasto dalla parte giusta. Non i vescovi e gli alti prelati, a parte qualche eccezione.

Monsignor Antonio Simbardi era il prevosto di Gallarate. Amatissimo, bersaglio dei fascisti. Le sue colpe: non aver benedetto in piazza Garibaldi le nuove bandiere della RSI e quella della Scuola Media. Al sacerdote per punizione era stato impedito di continuare a insegnare nelle scuole medie. “Giovane Italia”, il giornaletto dei balilla, se l’era presa al contrario con il prevosto di Varese monsignor Alessandro Proserpio reo, il 25 luglio del ’43 alla notizia dell’arresto di Mussolini, di essersi dichiarato “contento che finalmente il duce, salito all’altezza divina, era caduto e tornava umile verme a strisciare sulla terra”.

“Sono come i partigiani, sono contro di noi”, avevano continuato a protestare i gerarchi varesini. Ma moltissimi parroci non si erano impauriti continuando a fare il loro dovere di uomini liberi. Don Luciano Pozzi, parroco di Albizzate, si era rifiutato, ad esempio, di rispondere alle richieste dei fascisti locali di partecipare a pubbliche manifestazioni. Aveva disertato la piazza, l’avevano insultato. Così da Cantello a Viggiù, da Saltrio a Clivio mentre i podestà avevano cercato di attenuare i toni, tranquillizzare i vertici politici. Tutto regolare, avevano comunicato. Ma non era stato così perché i vari parroci, da don Giovanni Bolgeri (Saltrio), a don Gilberto Pozzi (Clivio), a don Gioacchino Brambilla (Viggiù), a don Angelo Griffanti (Cantello) a tanti altri, si erano messi nettamente dalla parte degli ebrei e degli antifascisti, favorendone la fuga in Canton Ticino. Arrestati erano finiti a San Vittore e poi salvati dal cardinale Ildefonso Schuster, Arcivescovo di Milano, che li aveva messi “al confino” in un Istituto di Cesano Boscone, assicurando che non avrebbero più nuociuto! Il Federale Bianchi da Gallarate furibondo aveva preso atto della situazione: “Questa popolazione dimostra di gradire i criteri e gli indirizzi che informano l’attività di questo clero. Occorre sorvegliarlo molto da vicino”.

Non era servito a niente. Don Giuseppe Albeni, 31 anni, bustocco, coadiutore a Cuggiono, aveva compiuto addirittura un passo in avanti. Era andato di persona in treno fino a Laveno e poi con il traghetto fino a Verbania per portarsi sulle montagne della Resistenza, sopra Miazzina, con armi, viveri e messaggi ai combattenti. Arrestato dalla “Muti”, don Albeni si era barcamenato negli interrogatori infarciti da violenze e minacce. I fascisti l’avevano poi liberato. Era stato il comandante Caldirola della GNR a premettergli di far ritorno in parrocchia, ammonendolo “severamente” a star lontano da ogni fazione politica e a fare il suo mestiere.

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login