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Politica

LA SOLUZIONE È AL CENTRO

CAMILLO MASSIMO FIORI - 31/05/2013

Anche nelle ultime elezioni amministrative è diminuita l’affluenza alle urne, segno inequivocabile di disaffezione e di sfiducia nella politica, accompagnato da una perenne ansia di novità e di cambiamento. Ma è tutta colpa del ceto politico? Davvero la società può autogovernarsi o affidarsi all’ultimo venuto? Le responsabilità delle classe dirigente non sono poche ma anche i cittadini non operano le loro scelte con senso di responsabilità e discernimento critico.

In un Paese diviso da fazioni irriducibili, segmentato da campanilismi e dal dualismo Nord-Sud. dove i fondamenti della convivenza sono fragili e le regole sono spesso disattese, il bipolarismo con la sua decantata alternanza non ha dato buona prova. Dopo due decenni di malgoverno nessuno può illudersi che le maggioranze, che sono tali per il vistoso premio assegnato, possano governare e realizzare le riforme di cui l’Italia ha bisogno.

La “destra” è praticamente Berlusconi e la sinistra è un accozzaglia di idee che attraversano trasversalmente i partiti. Ne risulta una accentuata conflittualità e una paralizzante immobilità causata dai reciproci veti cosicché la politica si degrada in populismo. La situazione potrebbe cambiare se, invece di puntare sui vecchi, logori poli attuali, si rafforzasse una terza forza di centro che è apparsa nelle ultime elezioni con Mario Monti e subito è stata dimenticata con ingenerosa superficialità.

A tagliare le ali alla lista “Scelta civica”, oltre la necessaria ma impopolare politica di austerità, è stata forse la reminiscenza del Centro della Prima Repubblica con la spregiudicata politica dei “due forni” per rimanere sempre al potere; ma quel tempo, pur avendo segnato una tappa importante della nostra esperienza civile, è passato. Il nuovo Centro possibile non è più quello dei “moderati” bensì quello dei “progressisti” che di fronte alla gravità della situazione attuale, sono disposti a rinunciare a parte delle proprie pregiudiziali pur di salvaguardare il bene collettivo possibile. Questa nuova concezione del Centro potrebbe sbloccare la stagnazione politica non perché egemone ma perché non è condizionato dagli ideologismi della “destra” e della “sinistra” che si neutralizzano a vicenda. I due Poli, peraltro, assomigliano poco alle forze tradizionali: la “destra” è tutt’altro che liberale e difende gli interessi corporativi, a cominciare da quelli del suo capo; la “sinistra”, lungi dal promuovere l’eguaglianza, tutela quelli che sono già garantiti e trascura i precari ed inoltre vede nella presenza di Berlusconi una ragione sufficiente di diversità.

Di qui il senso di incolmabile distanza tra i due schieramenti che rende difficile la collaborazione anche da posizioni distinte in vista del bene comune. Inoltre sui problemi eticamente sensibili

i due Poli sono su posizioni inconciliabili: coppie di fatto, procreazione assistita, scuola privata, lotta alla criminalità, immigrazione possono essere affrontati soltanto con un’alta mediazione.

Una forza di centro è svincolata dalle basi sociali della “destra” (liberi professionisti e lavoratori autonomi) e della “sinistra” (dipendenti pubblici e operai dell’industria) e può raccogliere un elettorato sensibile ai valori cristiani senza riproporre il modello della DC superato anche dalla decisione della Gerarchia di non schierarsi nell’arena politica. Un soggetto di centro, anche se non maggioritario, può facilitare la collaborazione tra i due schieramenti su una base di onorevole compromesso: la “sinistra” avrà sempre abbastanza forza per bloccare i tagli alla spesa pubblica sociale e la “destra” potrà comunque impedire un ulteriore aumento della pressione fiscale.

Invece la prevalenza di uno dei due Poli metterebbe l’Italia a rischio perché non vi sono più margini sia per aumentare la spesa pubblica, che farebbe lievitare l’enorme debito pregresso, ma neppure per abbattere le tasse, sicché viene meno il dilemma del bipolarismo: Più equità o più libertà?

Mentre sui fini ultimi una mediazione è difficile se non improbabile, sulla politica economico-sociale il compromesso può essere mediato da una forza “terza”. Se il deficit annuo viene azzerato, anche il debito pubblico smette di aumentare e il rapporto debito-PIL si riduce gradualmente tramite l’inflazione. Nella previsione di una società che invecchia e che si deindustrializza, lo Stato sociale va rafforzato e completato, eliminando gli sprechi della gestione corrente mentre la pressione fiscale può diminuire unicamente con il recupero dell’evasione. Da queste politiche realistiche possono essere reperiti i (pochi) mezzi finanziari da dedicare alla crescita.

I due governi di Monti e di Letta non hanno fatto male e hanno ottenuto qualche risultato positivo: il famoso “spread” è stato fermato ad un livello accettabile, la Commissione Europea sta per chiudere la procedura per debito eccessivo avviata nel 2009. Sono invece “gli opachi poteri frenanti della burocrazia” a imbrigliare la crescita: “Spending review” – ha scritto Guido Roberto Vitale – non vuol dire solo tagliare le spese ma anche spendere meno per la stessa quantità di beni. Basta la volontà!”. L’industria italiana può essere competitiva se gli imprenditori investono sulla innovazione e non trasferiscono i profitti nei paradisi fiscali, come è successo con l’ILVA

che ha provocato il dissesto ecologico del territorio; se poi si riesce a diminuire il costo del lavoro, tanto meglio per l’occupazione.

Una via d’uscita c’è, ma gli italiani devono decidere se scegliere una soluzione realistica e graduale oppure inseguire le utopie del populismo e l’illusione che l’uomo della strada possa fare di più e di meglio.

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