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Cultura

SUL PERCHÉ SI SCRIVE

LUISA NEGRI - 14/06/2013

La domanda se la pongono non solo quelli che leggono e seguono le mosse sulla pagina di un amico che scrive. Se la fanno per primi gli stessi che hanno il vizio di mettere in fila parola dopo parola.

La risposta è difficile e semplice insieme, spaventosa e bella. Ma unica: si scrive perché si cerca la vita. E la si cerca tanto d’arrivare a scarnificarla e a volerla sezionare e ridurre, attraverso le parole, in ossa e polvere e legamenti. Ma compiuta l’operazione, il suo autore scopre che quell’intervento di forza e volontà lo ha solo condotto sull’orlo del mistero. E che il destino è di rimanere inchiodato lì per sempre, come lo scienziato arrivato a un passo dalla particella di Dio.

Lo scrittore, lo scrittore autentico, non si parla qui di aureolato maître a penser, di patenti autorizzate e concesse da chissà chi – ordine o categoria o conventicola – o di disinvolte autopromozioni, ma di intrinseca, evidente vocazione alla scrittura, di spinta necessaria interiore, è un esploratore di vita. È un segugio affamato di piste d’umanità e di bellezza, ma anche di baratri di smarrimento. E alla fine si può sentire un fallito indagatore del mistero. Hemingway, Pavese, Sandor Marai, Morselli sono solo alcuni dei tanti tra i più celebri che hanno temuto e pagato la resa a questo ineluttabile fallimento.

Lo scrittore è anche un essere privilegiato, dagli occhi spalancati sul mondo. Raccoglie e incamera la grazia dei primi vagiti della vita, sfiora a pelle la prima rugiada del mattino, raccoglie come messi l’oro delle estati. E sa annusare come nessuno l’umore umido delle nebbie dell’autunno e il sentore gelido dell’inverno che avanza. Lo scrittore è un po’ bastardo e un po’ vigliacco, ma a volte gli riesce anche di fare l’eroe.

Non sempre ti racconta tutto quello che sa, perché non sempre lo può fare, ma in ogni lettera di parola sfiorata dalla sua mano mette un grano di verità. E se il suo lettore è buon lettore sa capire che li c’è in nuce la particella di Dio. Lo scrittore, spiegava Piero Chiara, lavora in solitudine come il ragno appeso alla tela, e si aspetta come un bambino, e come pretendeva Barthes, la risposta d’amore. Per tutti questi motivi, fanno un po’ sorridere le scuole di scrittura che pretendono di insegnare come si scrive. Si può migliorare la forma, orecchiare qualche storiella e metterla sulla carta, ma il vero senso della scrittura rimane e rimarrà a sua volta un mistero.

“Malgrado abbia pubblicato venti libri, la scrittura resta per me un evento assolutamente misterioso”: così Susanna Tamaro nel suo ultimo libro “Ogni angelo è tremendo”. “Non ho mai considerato la scrittura uno svago, una professione, qualcosa che si potesse fare come tante altre cose, come non ho mai pensato che lo scrivere bene, lo scrivere forbito, appropriato, siano preludi della vera scrittura” aggiunge la Tamaro. Per lei “la vera scrittura sta altrove, giù in profondità, nel nucleo di fuoco della terra, nel cuore di tenebra dell’uomo. Procede e si mantiene in bilico tra questi due estremi. Per questo affatica, logora, fa male alla salute. Per questo – conclude – non insegno, non consiglio. Anzi, appena posso, sconsiglio”.

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