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Politica

FERRIVECCHI DEL NOVECENTO

CAMILLO MASSIMO FIORI - 28/06/2013

Il filosofo Norberto Bobbio ha felicemente sintetizzato l’identità della sinistra come forza politica che postula il massimo della eguaglianza e la destra impegnata per realizzare il massimo di libertà.

Questa distinzione è nata nel contesto delle dinamiche sociali tra Ottocento e Novecento, ma è completamente superata nella fase attuale della globalizzazione.

Il processo di internazionalizzazione ha spostato il baricentro dell’economia dall’Occidente verso i Paesi in fase di sviluppo dell’Asia e dell’America latina (i Paesi Bric). Nei Paesi sviluppati la produzione e l’accumulazione di capitale non riescono a soddisfare l’alto livello di consumo consolidato da parte delle popolazioni e questa situazione ha costretto i governi a ricorrere al debito. Nei Paesi di nuova industrializzazione, dove i costi e i consumi sono più bassi, la produzione è maggiore del reddito distribuito e in tal modo si crea il risparmio che alimenta i flussi finanziari attraverso i quali i Paesi ricchi finanziano il loro indebitamento.

Tutto ciò ha creato, a partire dagli anni Ottanta, profondi cambiamenti nelle società, nel campo economico, nei rapporti sociali, nel modo di pensare.

Vengono messe in discussione antiche certezze tra cui l’idea di equità come giustizia redistributiva, che dava vigore all’immagine della sinistra. Che cosa si distribuisce oggi se gli Stati vivono di debito?

Il massimo di libertà e di spontaneismo predicato dalla destra non riesce a risolvere i problemi di fondo che generano tensioni nelle società.

Il tratto dominante della “società post-moderna”, è la paura al posto della speranza di futuro; la paura è il terreno fertile su cui cresce il “populismo” che deresponsabilizza la comunità e gli individui rispetto alle cause interconnesse dei problemi emergenti, perché cerca illusioni nella protesta, nella ricerca del “nemico” esterno, nella “leadership carismatica”, nello “Stato-provvidenza”.

Il “populismo” cerca una impossibile difesa nell’individualismo e nell’egoismo e non invece nella responsabile partecipazione dei cittadini per creare un ordine nuovo, un nuovo equilibrio.

È venuta meno l’idea della sinistra di poter creare equità attraverso l’intervento dello Stato, ma anche della destra di creare benessere attraverso la libertà dei mercati.

Destra e sinistra sono concetti appartenenti a una fase storica superata e sono da archiviare tra i reperti del passato. Le identità novecentesche di destra e di sinistra non sono in più grado di dar forza a soggetti politici che vogliono affrontare le sfide della globalizzazione; l’alternativa non è più definita tra socialismo e liberismo, tra sinistra e destra, ma vede di fronte due atteggiamenti collettivi di riformismo responsabile e di populismo protestatario.

La politica non può più essere finalizzata al “che fare per vincere”, bensì al “vincere per che fare”; il bipolarismo conflittuale è incapace di governare una società complessa e pluralista che deve affrontare la sfida della globalizzazione. Il superamento della fase attuale non può stare nel rilancio dei concetti e dei contenuti di un tempo, di cui peraltro non si trova traccia in una inesistente discussione culturale.

Nell’ultimo ventennio il Paese ha smesso di crescere, ha perso le sue più grandi industrie, ha sacrificato un’intera generazione di giovani; a nessuno di questi problemi la vecchia politica ha dato una risposta.

Tra le parole e la realtà ci deve essere corrispondenza, se non c’è vuol dire che manca la politica. Se non si parte delle ragioni che hanno portato al distacco tra società civile e istituzioni, tra cittadini e partiti anzi ci si chiede se quello del governo Letta di “larghe intese” non sia una parentesi da chiudere al più presto per tornare alla presunta legittimazione popolare (un Parlamento eletto da candidati designati dai partiti) e alla vecchia politica; la crisi non verrà fermata e il “populismo” incolto e familista ci porterà alla bancarotta.

Il “governo di servizio” è un punto di non ritorno della vita pubblica italiana che chiude decenni di decisioni non prese, di compromessi al ribasso, di incapacità ad affrontare i nodi della crisi di sistema. È anche da questa malattia della politica che è nato il “populismo”; esso si sconfigge se i partiti sono in grado di rigenerarsi con nuove idee e nuove classi dirigenti e la politica riesce a recuperare il suo senso di progetto, di forza morale, di concretezza.

Serve un “progetto popolare” come contenitore di idee e di programmi che impediscano il fallimento degli Stati e dell’economia; al messaggio del continuismo si deve sostituire quello della ricerca in campo aperto. La politica che ha fallito deve essere spazzata via perché la democrazia si rafforza con il cambiamento, in modo che possa emergere una nuova, vera offerta politica capace di interpretare il bisogno del Paese ad essere governato.

La stagione dei congressi che si aprirà in autunno dovrà dare delle risposte: così come sono i partiti non riscuotono più la fiducia degli elettori, ma senza partiti la democrazia è a rischio.

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