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Storia

“ECCELLENZA, È LA VERITÀ”

FRANCO GIANNANTONI - 26/07/2013

Settant’anni fa, il 18 luglio 1943, una settimana prima della caduta del fascismo e dell’arresto del duce, il direttore di “Cronaca Prealpina” Giovanni Pozzo Teodorani Fabbri, “Vanni” per gli amici, nipote di Mussolini (aveva sposato la figlia di suo fratello, Arnaldo), ospite a Bodio Lomnago di Villa Puricelli, si era lasciato andare a previsioni fuori dalla storia e ad appelli di sapore berlusconiano: “L’importante è tener duro, lavorare con ferrea volontà, non perdere un filo di fede e poi costruire, costruire, costruire perché se non si vince, popolo italiano, sarai tu che riprenderai il sacco e il mandolino e più miserabile di ieri dovrai tornare a battere le vie del mondo, sfruttato e maledetto”. Poi, per non lasciarsi sfuggire l’occasione, aveva urlato alla luna “o si vince o si muore!”.

Sappiamo com’è andata a finire. Il regime si era volatilizzato senza che nessuno dei 1427 gerarchi e dei quattro milioni e 700 mila iscritti al Partito Nazionale Fascista muovesse un dito per Mussolini, fatta eccezione di Manlio Morgagni, direttore della “Agenzia giornalistica Stefani”, che per la vergogna si era suicidato.

Il 25 luglio 1943, il giorno fatale, era domenica. Il tempo a Varese era discreto. C’era la guerra ma la gente poteva anche svagarsi un po’: si era inaugurata la stagione ippica alle Bettole; allo stadio del Littorio le ragazze si sfidavano in una gara di atletica leggera; a Luino era in cartellone il campionato provinciale del tiro alla fune con cinquantasei partecipanti. Anche le sale cinematografiche erano una buona occasione: all’Impero in programma c’era “Un’ora di felicità”, al Vittoria “Colpi di timone”, al Lyceum “Alba d’amore”, al Centrale “La zia innamorata”, alla Casa Littoria “Un caso disperato” (tanto per tirarsi su il morale); all’Ospedale del Palace Hotel Kursaal l’illusionista Lunardi intratteneva i feriti reduci dal fronte; alla Casa del Fascio di Saronno un concerto di musica leggera col maestro Dagasso. I fasci femminili avevano indetto la “giornata della bontà” per i “sinistrati”.

Erano suonate le 21,30 quando il brigadiere di Pubblica Sicurezza Biagio Randisi, trentasette anni, siciliano, un bell’uomo, alto e grosso, addetto all’Ufficio di Gabinetto della Regia Prefettura (l’avevo conosciuto), era stato buttato giù dal letto da una telefonata. Era il Prefetto Pietro Giacone, un militare di carriera, che gli aveva ordinato di raggiungere al più presto Villa Recalcati. Era necessario decifrare un telegramma di Stato. Solo lui lo poteva fare. Randisi che abitava a Casbeno in via Menotti in pochi minuti era arrivato a destinazione. Aperta la cassaforte, preso il cifrario segreto, aveva tradotto il testo. Era l’annuncio che il regime non esisteva più. “Ti stai sbagliando, ci sarà un errore!”, aveva commentato sbigottito Giacone. Ribattè Randisi: “Eccellenza è la verità”.

Se la notizia del crollo del regime aveva raggiunto le autorità periferiche nove ore più tardi del voto del Gran Consiglio dei Ministri (diciannove voti a favore dell’ordine del giorno del ministro Dino Grandi, sette contrari, un astenuto) e quattro dopo la destituzione di Mussolini, la radio di Stato, interrompendo il programma musicale dell’orchestra Zeme, aveva informato il popolo italiano del cambio di governo esattamente alle 22,47.

A Varese e in provincia l’annuncio del trapasso era stato accolto da grandi manifestazioni di entusiasmo. La situazione economica era discreta per la forte attività industriale in campo militare (aerei) che garantiva salari sicuri a migliaia di dipendenti. Il capoluogo appariva laborioso e quieto, i bombardamenti l’avevano al momento risparmiato. I partiti politici, ancora nella clandestinità, non avevano saputo cogliere l’importanza del momento, lasciando all’ala conservatrice e pre-fascista il compito di gestire quel momento.

Vanni Teodorani, come se nulla fosse accaduto, si era allineato al nuovo corso firmando l’editoriale “Il dovere degli italiani” accanto al titolo d’apertura “Il Re Imperatore ha assunto il comando di tutte le forze armate. Il Maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, capo del Governo militare del Paese con pieni poteri”. Un pezzo grondante retorica senza una sola parola per la sorte del duce.

“Nelle vie, sui marciapiedi si formavano presto dei capannelli di persone, si alzarono i primi gridi inneggianti all’Italia e a Casa Savoia e già prima delle 8 piazza Monte Grappa rigurgitava di folla” aveva informato il cronista locale nel numero del 26 luglio. Un corteo con il tricolore senza lo stemma sabaudo aveva raggiunto la Caserma Garibaldi e il Monumento del Butti. C’erano stati comizi operai alle stazioni ferroviarie sull’onda della mobilitazione delle cellule comuniste di Valle Olona, Belforte, Biumo Inferiore. Qua e là dai palazzi pubblici erano volate insegne e teste del duce. Il fuoco aveva divorato le sedi dei fasci rionali. Un gruppo di ciclisti guidato da Renato Morandi, campione d’Italia di ciclismo su pista, in maglia tricolore, si era recato alla Questura per manifestare.

Mino Tenaglia, giornalista di punta della Cronaca Prealpina, si era rivolto alla folla dal balcone del Palazzo dei Fasci e delle Corporazioni affiancato da Antonio De Bortoli, antifascista cattolico-popolare e da Calogero Marrone, il capo dell’Anagrafe del Comune nella sua prima apparizione pubblica. “L’Italia è risorta – aveva urlato Tenaglia – marciamo tutti disciplinati agli ordini del grande re e di un grande generale”.

Peccato che il re fosse tutt’altro che grande (in ogni senso) e che il generale Badoglio, avesse le mani ancora insanguinate dalle mattanze libico-etiopiche. I tumulti si erano moltiplicati. Il comandante dei carabinieri Salvatore Sinisi aveva comunicato in un fonogramma delle 17,30 che a Valle Olona erano in corso scontri fra operai della Conciaria e gerarchetti locali. Il Commissario di Pubblica Sicurezza si era recato a Velate, dove il fiduciario del Partito Fascista pronto a calarsi dalla finestra, era stato assediato. Gli ordini di Badoglio venivano frattanto applicati alla lettera: in luogo di arrestare il fascista era stato denunciato tale Paolo Lucchina di diciotto anni, uno fra i dimostranti!

La ventata rivoluzionaria si era estesa frattanto a Masnago, Lissago, Casciago, Sant’Ambrogio con l’aggressione al segretario del fascio locale, il mutilato Pasquale Gervasini. Busto Arsizio e Gallarate erano state teatro di violenti tumulti. A Laveno Mombello ignoti aveva cambiato il nome delle strade: via Costanzo Ciano era diventata via Giacomo Matteotti. A Cantello trecento cittadini, compresi donne e ragazzi, avevano assalito la villa del federale Ferdinando Asma, uno sfollato da Milano. Giovanni Broggi, federale di Ligurno, era stato malmenato e a stento sottratto alla folla. I comunicati della polizia avevano riferito degli episodi più significativi: il rogo degli emblemi del regime ad Arcisate nella piazza principale; l’incendio fra la folla festante della camicia nera del podestà di Busto Ercole Lualdi; la devastazione della Casa del fascio di Travedona; l’incendio di una gigantografia di Mussolini a Voldomino; l’assalto alle sedi del fascio di Cabiaglio, Castellanza e Germignaga. Il segretario del fascio di Vergiate Antonio Castano era stato schiaffeggiato e gettato a terra. La zona operaia di Saronno aveva vissuto ore terribili con incendi e saccheggi. A Fagnano Olona un gruppo di studenti era entrato in una trattoria, aveva tolto dalla parete la foto del duce, dandole fuoco. L’ondata con il passare delle ore si era placata. L’ultimo bersaglio era stato la contessa Gina Cicogna, ex segretaria del Fascio di Bisuschio, che aveva dovuto chiamare i carabinieri, prontamente intervenuti, per arrestare quelli che la nobildonna aveva definito “i sobillatori” e che avrebbero voluto darle una lezione.

Assorbita la reazione della piazza, Badoglio aveva imposto il suo “governo militare”. Il coprifuoco dalle 22 alle 4,30, sciolto il partito fascista, al posto del prefetto Giacone il governatore di Roma Giovanni Battista Laura. Si era dimenticato i censimenti degli ebrei.

Il colonnello Pier Giuseppe Bagna, comandante della Piazza di Varese, in un comunicato affisso ai muri della città, aveva informato “che l’autorità militare ha assunto tutti poteri”. Ci vorranno ancora quarantacinque lunghi giorni vissuti fra incertezze, terrore dei tedeschi, compromessi, ritardi, la repressione del movimento antifascista, per arrivare all’8 settembre e all’armistizio. Una data fatale. Una vergogna. Lo sfaldamento dell’esercito, la deportazione dei militari sorpresi sui fronti all’estero, la fuga del re e di Badoglio al Sud, la Repubblica Sociale Italiana ed i tedeschi con in mano l’Italia. Seicento giorni per conquistare la libertà.

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