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Storia

LA GRANDE ILLUSIONE, L’AMARO RISVEGLIO

FRANCO GIANNANTONI - 06/09/2013

La firma dell’armistizio di Cassibile, il 3 settembre 1943, comunicato l’8 settembre

8 settembre 1943: settant’anni da una delle pagine più vergognose della storia patria, l’ “armistizio corto” fra l’Italia e gli anglo-americani, firmato cinque giorni prima a Cassibile di Siracusa e reso noto via radio alle 19,42 dal maresciallo d’Italia Pietro Badoglio, uno dei condottieri delle guerre del fascismo, imposto da Vittorio Emanuele III al vertice del nuovo governo dopo il ventennio di Mussolini.

Quel giorno costituisce il simbolo di un crollo politico-militare, il disastro dello Stato, il trionfo della viltà di una classe dirigente pavida prima che mediocre. Un atto politico giunto dopo la caduta del fascismo il 25 luglio e il logorante strascico dei “45 giorni” badogliani trascorsi negli equivoci per il timore di una reazione tedesca che comunque avvenne.

Badoglio aveva imposto una linea militare di stampo autoritario. Stato d’assedio, censura ai giornali, bavaglio ai partiti politici, coprifuoco, blocco delle libertà sindacali, arresti di operai e antifascisti. Se furono sciolti il Partito Nazionale Fascista, il Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, la Camera dei Fasci e delle Corporazioni, rimasero in vita le leggi razziali del ’38 a beneficio degli occupanti che nel frattempo avevano invaso l’Italia.

Al primo armistizio era seguito quello “lungo” del 29 settembre a Malta con pesantissime condizioni. Il messaggio di Badoglio mentre segnalava la fine delle ostilità con gli anglo-americani, invitava a reagire “all’eventualità di attacchi da qualsiasi altra provenienza” come se all’infuori dei tedeschi esistessero altri nemici. Nello stesso tempo non c’era stato alcun segnale preventivo per i due milioni di soldati italiani dislocati sui fronti stranieri, destinati nei lager tedeschi o massacrati nelle Isole Egee.

Roma aveva resistito con coraggio. Milano, dopo un tentativo fallito del “giellista” Poldo Gasparotto (base a Ligurno di Cantello) di costituire delle squadre armate cittadine per opporsi ai tedeschi, il 10 settembre per viltà del generale Vittorio Ruggero comandante della Piazza aveva alzato bandiera bianca.

L’ondata di smarrimento, alla notizia dell’armistizio, era stata enorme. I tedeschi, dopo il “tutti a casa”, oltre a garantire la produzione militare per la continuazione della guerra (aerei da combattimento e da trasporto forniti al Nord dall’Avio Macchi, dalla Savoia Marchetti, dalla Caproni e dalla Fiat) avevano messo sotto il loro controllo i confini italo-svizzeri per impedire la fuga nella Confederazione elvetica di militari, civili, ebrei, ex prigionieri alleati.

Era scattato anche il coprifuoco dalle 21 alle 5; ogni detentore di arma avrebbe dovuto consegnarla al più vicino Comando militare; chi avesse reagito sarebbe stato passato per le armi; i negozi dovevano chiudere entro le 20; erano vietati raggruppamenti di più di tre persone; i quotidiani erano stati sottoposti alla censura.

L’intero Nord Italia con i diciassette milioni di cittadini compresi nella Repubblica Sociale italiana, il nuovo Stato retto da Mussolini, era finito nelle mani dell’esercito di Hitler. Chi non era fuggito oltre confine, aveva raggiunto le montagne per dare vita ai primi nuclei partigiani.

I dispacci telegrafici avevano segnalato con regolarità la disfatta. “Ieri 11 corrente distaccamento aeronautico Lonate Ceppino – aveva registrato il tenente dei carabinieri Ottorino Esposti – dopo aver distrutto apparecchi ricezione acustica, ufficiali e truppa abbandonavano caserma, lasciando incustoditi armi e munizioni”. Analogo scenario al campo d’aviazione di Ternate. “Ieri ore 7 – aveva comunicato il sottotenente Pieri dei carabinieri di Busto Arsizio – capitano De Michele Domenico con novanta avieri abbandonavano il campo. Ore 18 stesso giorno truppe tedesche comandate da due ufficiali occupavano aeroporto suddetto”. In preda al panico era stata lasciata ogni caserma. “12 corrente – avevano segnalato i carabinieri di Saronno – maggiore Franzosi Domenico ha disertato con dipendenti militari Presidio Solbiate Olona e magazzino artiglieria che è stato occupato da militari tedeschi”.

Un rapporto del colonnello Alfredo Malgeri, comandante della III Legione della Guardia di Finanza di Milano, aveva descritto il dramma del Corpo: “la brigata di Fornasette la notte sul 12, dopo aver distrutto il carteggio d’ufficio, si sbanda. Analoga sorte era toccata ai reparti di Luino, le cui caserme vengono invase e saccheggiate dalla popolazione civile; alla brigata di Ca’ Bella; al Comando di Porto Ceresio che espatriano coi motoscafi, la motolancia e la lancia a remi e approdano a Moscate; alla brigata di Casa Moro; alla brigata di Gaggiolo; alla tenenza e alla brigata di Ponte Tresa; alle brigate di Lavena che espatriano al completo in Svizzera”.

Il Reggimento “Savoia Cavalleria” di Somma Lombardo il 12 settembre era transitato da Ligornetto-Viggiù accolto dal Governo Federale di Berna. Era seguito parte dell’Autocentro di Cantù. L’ondata dei fuggiaschi era cresciuta di ora in ora. Gli uffici statali erano stati saccheggiati.

I tedeschi avevano mostrato il volto degli occupanti. “Ore 12,30 del 15 corrente – avevano segnalato i carabinieri di Saronno – in Cislago militari tedeschi, armati con autocarro, hanno disarmato quel Distaccamento di sette moschetti modello 91, due pistole modello 89, sette bandoliere e relative munizioni”.

Severi – le sole voci – erano stati i commenti di alcuni sacerdoti sui “Liber Chronicus” davanti alla resa incondizionata di Varese. Don Ubaldo Mosca, parroco di Casbeno, aveva annotato come alle 19,15 del 12 settembre “fossero arrivati da Innsbruck una dozzina di camion armati di tutto punto pronti a fare strage”. I tedeschi, aveva osservato il sacerdote, si erano fermati in piazza Littorio, avevano consumato “marmellata e burro” e il mattino dopo “erano entrati nei negozi portando via abbondanti riserve di viveri”. Monsignor Alessandro Proserpio, prevosto di Varese, ricevuta la visita del comandante SS Manfred Gauglitz – visita non ricambiata – si era abbandonato a uno sprezzante commento per “quelle donne e signorine che diedero prova di poca dignità andando incontro alle truppe tedesche offrendo fiori e sigarette facendo subito cameratismo con essi con i bei risultati che si videro”.

Erano seguiti i bandi di fucilazione e di deportazione per chi avesse resistito. L’appello “ai fuggiaschi dell’8 settembre” per presentarsi alla Caserma Garibaldi in uniforme era andato a vuoto.

I primi profughi – un gruppetto di venti prigionieri inglesi seguito da novanta senegalesi fuggiti dai settantacinque “campi di Mussolini” – si erano presentati alla frontiera italo-svizzera l’11 settembre. Era iniziato da quel momento un autentico assalto. A conti fatti i militari italiani giunti in Canton Ticino erano stati circa trentamila; i rifugiati civili quindicimila di cui seimilacinquecento – settemila ebrei.

Solo dalla città di Varese se n’erano andati novecentonovantanove giovani residenti (secondo le carte consultate all’Archivio Federale di Berna), in gran parte appartenenti alle classi del ’24, ’25 e ’26, le prime che sarebbero state chiamate dalla RSI. Fra il 16 e il 17 settembre la fuga aveva assunto dimensioni molto vaste. Circa tredicimila erano stati coloro che si erano presentati al confine. Aveva avuto inizio a quel punto la infame pagina dei “respingimenti” (réfoulements) per coloro che erano riusciti miracolosamente a entrare in Svizzera. Fermati, erano stati rimandati in Italia e catturati dai fascisti (il caso più tragico, quello della sedicenne ebrea Liliana Segre scampata ad Auschwitz).

Verso il confine si erano diretti non solo i militari ma anche i civili. Il 23 gennaio dal valico di Fornasette di Luino era entrato in Ticino il cancelliere di Pretura Piero Chiara, poi popolare scrittore, inseguito da una condanna a quindici anni del Tribunale Provinciale Straordinario di Varese “per aver offeso il duce offrendo la sua immagine al dileggio e al furore popolari” avendo messo il 26 luglio 1943 la foto di Mussolini in una gabbietta per volatili nello spazio destinato agli imputati.

Il problema dell’accoglienza degli ebrei era parso molto più complesso perché per un certo periodo la Confederazione Elvetica non li aveva considerati in reale pericolo di vita. Una valutazione errata, corretta solo più avanti. Le fughe erano iniziate alla notizia delle stragi di Merano e del lago Maggiore, fra Arona e Meina, dal 22 al 25 settembre ma solo dopo che la RSI il 30 novembre 1943 aveva emesso “l’Ordine di polizia n. 5” che prevedeva l’arresto di tutti gli ebrei, del loro concentramento in campi di raccolta e il sequestro dei loro beni mobili e immobili, la posizione del governo elvetico era cambiata. Raggiungere la Svizzera era stata un’impresa inimmaginabile. Varese, più di altre città, aveva costituito un punto strategico di raccolta: era a pochi chilometri dalla meta e il territorio non presentava ostacoli insormontabili. Dei quarantacinquemila ebrei residenti in Italia, una gran parte aveva puntato in direzione di Varese. In città si erano procurati i documenti presso il “Giusto fra le Nazioni” Calogero Marrone, capo dell’Ufficio Anagrafe e Affari Civili del Comune di Varese e un gruppo di coraggiosi sacerdoti, da don Franco Rimoldi, a don Natale Motta, da don Pietro Folli a don Aurelio Giussani. Poi avevano “ingaggiato” passatori e contrabbandieri per lo sconfinamento. Non sempre il viaggio era andato a buon fine per i tradimenti. Quando la meta sembrava raggiunta, erano apparsi i tedeschi e i fascisti informati dalle “guide” passate per denaro al nemico.

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