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Società

CRISI DELLA FAMIGLIA E RIMEDI

LIVIO GHIRINGHELLI - 25/10/2013

Dal 12 al 15 settembre scorsi si è svolta a Torino la 47a settimana sociale dei cattolici italiani (la prima era stata tenuta nel 1907, la terza sul tema della famiglia dopo quella di Genova del 1926 e quella di Pisa del 1954). Titolo dell’incontro: Famiglia, speranza e futuro per la società italiana, in relazione al suo ruolo e alla sua vocazione sociale. Presenti 1315 delegati, di cui 938 laici. In alcuni interventi è riapparsa la visione di una Chiesa intesa come cittadella assediata in difesa sotto gli attacchi del mondo, maestra arcigna più che madre premurosa nel sottolineare le posizioni della tradizione; ma si è trattato anche di porsi al contempo in ascolto di Dio e di una umanità colta nelle sue sofferenze, fatiche, paure, nei disagi di una realtà in incessante evoluzione, per offrire quel contributo di umanizzazione che la luce della fede suscita.

Le famiglie sono state oggetto d’esame e di proposte in ordine al loro stato di solitudine, al bisogno di relazione, alle loro diffuse fragilità, collo scopo di fare loro avvertire il bisogno vivo della prossimità, la necessità di una rete, di alleanze educative, sottolineandone la valenza pubblica in questo impegno. Considerata in piena luce come soggetto e non oggetto, protagonista della vita comunitaria, la famiglia è capace di una genitorialità sociale, che trascende l’ambito delle cure domestiche. La prolusione del card. Bagnasco ha fatto riferimento alla visione dell’umano fondata sulla differenza sessuale e sulla differenza tra le generazioni. Nei confronti delle famiglie immigrate si è proposto di passare dal codice del parallelismo a quello della reciprocità, dal codice del soccorso a quello della convivialità in uno scambio paritario. E si è evidenziato che lo Stato debba intervenire in merito ai diritti, alla tutela delle famiglie con riguardo al fisco e al welfare. Richiamata l’attenzione sul ruolo dei laici, si è fatto riferimento alle loro responsabilità in ordine ai ritardi, alle tiepidezze, all’insufficiente incisività dell’azione pubblica a loro spettante.

Per secoli la famiglia è stata caratterizzata da un asse verticale (la presenza dell’amore essendo spesso un dato facoltativo); da due secoli la si è pensata attorno al legame coniugale. Ora è il figlio a fare la famiglia e questa non si fonda solo sull’affettività e sulla psicologia, perché va tenuto conto delle altre dimensioni: morale, sacrale, comunitaria, sociale e patrimoniale. E’ il matrimonio ad essere il fondamento più solido e più coerente per la filiazione. I figli sono l’incarnazione dell’unione, il suo prolungamento. Il pubblico sì all’unione di fatto è consenso ad una oggettività. Certo nome, patrimonio, interessi, reputazione, vincoli affettivi non devono divenire oggetto di un culto assolutizzato nell’appartenenza al clan, mentre il legame va aperto all’alterità. Al primo posto va comunque posto l’accento sulla rilevanza della persona con i suoi legami interpersonali, come sui principi di lealtà, fedeltà, solidarietà nell’ancoraggio alla realtà corporea.

La cultura oggi diffusa non favorisce certo il senso del legame. Ecco che ad es. in Lombardia ci si sposa sempre meno, si annoverano a sorpresa divorzi record nelle città bianche (Lodi, Monza e Brianza, terza nell’ordine Pavia). Tra le ragioni la crescita dell’individualismo, l’instabilità aggravata anche a motivo della precarietà dominante,, una concezione meno responsabile della sessualità, i processi di mobilità e deregolamentazione, l’instabilità psicologica, l’incoerenza dei percorsi di vita (Caritas in veritate n.25), l’obbligo frequente per le donne di scegliere tra lavoro e famiglia, a scapito della specificità femminile, contro l’evidenza di un ruolo insostituibile delle madri (Laborem exercens 19). Quest’ultima enciclica (del 1981) sancisce l’intimo legame che intercorre tra realtà economica e ruolo sociale della famiglia. “Il lavoro è, in un certo modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia”. Ed è chiaro che ognuno diventa uomo mediante il lavoro.

Dalla richiesta di un giusto salario della Rerum Novarum (1891) alla Mater et Magistra (1961), che ritiene non possa essere la retribuzione del lavoro interamente abbandonata alle leggi del mercato, né fissata arbitrariamente, bensì determinata secondo giustizia ed equità (n.71) al pronunciamento di Benedetto XVI del 2009, la dottrina sociale della Chiesa predica la necessità di un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli :” un lavoro peraltro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare e spirituale” (C.V. n.63). Con il corollario dell’esigenza di una proprietà privata quale mezzo per lottare contro la povertà, come garanzia della dignità e libertà dell’uomo, della stabilità familiare e della pace sociale, accessibile al maggior numero di soggetti possibile (Mater et Magistra 111-115).

Una profonda incomprensione è stata denunciata tra la Chiesa e il mondo dalla Humanae Vitae di Paolo VI (1968). Oggi la crisi si è aggravata e si accusano nuove povertà ove viene meno la solidarietà familiare. Lo Stato si astenga dall’intrusione nell’intimità coniugale, riservando piuttosto alla famiglia tutti quei riguardi che ne consolidino la stabilità, favorisca tutte quelle forme che offrano a priori le maggiori opportunità, mentre la Chiesa, escludendo ogni gretto confessionalismo, ha il compito di proclamare il senso della vita come dono, dell’amore incondizionato, dell’alterità sessuale come esperienza spirituale (il corpo è infine il luogo in cui soffia lo spirito), iscrivendo il soprannaturale nel temporale e concependo il mistero della carne come luogo del dono. Quanto ai rapporti tra uomo e donna oggi risultano certo più liberi ed egualitari, ma al contempo più duri, più aggressivi, più violenti in vari casi, è il caso di constatare.

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