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Storia

RUOTA DI SCORTA E NON ESERCITO POPOLARE

FRANCO GIANNANTONI - 01/12/2011

 

Qualche perplessità interpretativa e qualche nervosismo di troppo manifestati da amici partigiani, prigionieri del loro generoso passato ma soprattutto della loro passata splendente giovinezza, a proposito del mio recente saggio sulla battaglia del Monte San Martino – attendismo badogliano filo-alleato da una parte per la continuità pre-fascista e guerriglia estrema dall’altra per una democrazia popolare – mi induce a intervenire nuovamente sull’argomento nelle linee più generali cercando di offrire un’immagine più completa di quella che, nella vulgata popolare, si definisce Resistenza. Credo sia utile farlo per togliere inutili paludamenti retorici a quella pagina di storia e riportarla sul terreno della verità assoluta. Piaccia o non piaccia.

Quando il 3 novembre 1943 Ferruccio Parri e Leo Valiani, in nome e per conto del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia (Clnai), si recarono a Certenago nei pressi di Lugano per incontrare Allen Dulles e John McCaffery, rispettivamente direttori dell’Oss e del Soe, le centrali informative statunitense ed inglese, per sollecitare un sostegno militare e finanziario alla lotta partigiana che stava iniziando nell’Italia Settentrionale, la risposta che ottennero fu da un punto di vista tecnico interlocutoria e da quello politico lontana dalle aspettative. I sacri fuochi di una lotta armata con un grande “esercito popolare” erano stati soffocati. Gli Alleati avevano preso decisamente le distanze da quella visione in nome di una strategia che non prevedeva cessioni di comando nella conduzione della guerra.

La “guerra grossa” sognata da Parri per un riscatto del Paese contro l’oppressore “sotto la spinta di irrinunciabili istanze di rinnovamento politico e sociale” come prospettato da Pietro Secchia e Filippo Frassati non rientrava negli impegni che gli Alleati avrebbero assunto nella campagna d’Italia. “Avemmo la sensazione – commentò a caldo il buon Parri – che gli Alleati cercassero di dividerci invece di aiutarci a creare un’organizzazione unitaria”.

Gli Alleati infatti avevano della Resistenza una visione particolare. Ostili ad una lotta politicizzata, propensi a sostenere Casa Savoia, correa della tirannide fascista, contrari a bande armate alimentate dai partiti e da ideologie deprecabili come quella comunista, sprezzanti secondo lo studioso americano Norman Kogan verso i partigiani considerati al pari di mercenari e con scarse qualità militari, timorosi di uno sbocco istituzionale di segno rivoluzionario al termine del conflitto, non erano disposti a mettere in gioco il controllo strategico della guerra destinata a consolidare, una volta conclusa, aree di potere e restaurare il modello socio-istituzionale e conservatore pre-fascista. Kogan sul punto era stato categorico: “I capi militari alleati non avevano fiducia dei partigiani e per naturale disgusto verso le forze irregolari e per la prevalente intonazione politica di sinistra del movimento”.

Se le divergenze di fondo erano queste, cristallizzate in un giudizio negativo contro tutto quello che portava al Clnai, ritenuto “un luogo di inutili chiacchiere” e contro l’attività dei partiti politici (ecco stagliarsi limpido il caso del “Gruppo 5 Giornate del San Martino” perfettamente allineato a questa interpretazione), un’ intesa con gli Alleati era apparsa solo possibile sulla base di attività di sabotaggio, intelligence, azioni armate di breve respiro con nuclei ristretti sempre in stretto contatto con le forze anglo-americane (vedi radio ricetrasmittente del Monte San Martino fatta funzionare dal sud- africano Harvey Sinclair, ex prigioniero di guerra di Mussolini, collegata al Quartiere Generale di Caserta ed Algeri) “senza che l’auspicata collaborazione implicasse un consenso alleato anche generico ai moventi ideali delle correnti più avanzate dell’antifascismo”.

Interessante la “voce” sul tema di Edgardo Sogno Rata del Vallino, audace capo monarchico di una piccola formazione partigiana militare di Mongivetto in Piemonte in contatto con gli inglesi, medaglia d’oro della Resistenza oscurata dalle successive ombre golpiste: “Nel Nord si mira a fare delle bande un corpo unico, un’Armata di Liberazione che alzi la riscossa politica nazionale. Si mira all’insurrezione di massa, attribuendo alle formazioni un valore e un significato che va molto al di là della loro funzione militare immediata. La concezione Alleata è invece molto diversa. L’azione militare delle bande non deve essere che un’integrazione dello sforzo di guerra delle truppe alleate. I servizi alleati vogliono bande poco numerose, composte di elementi solidi. Di fronte alla bande politiche rimangono freddi e diffidenti e i capi appaiono ai loro occhi dei mestatori che intralciano il lavoro serio dei militari”.

Contro questa lettura si era schierato il Comando partigiano delle Divisioni d’Assalto Garibaldi, in gran parte comuniste ma aperte a tutti coloro che ne volessero fare parte: “Le correnti conservatrici dello schieramento politico italiano agivano in sintonia con gli Alleati al fine di ridurre il fenomeno resistenziale entro i limiti di un fatto puramente militare. Si trattava anche e in primo luogo di opporsi ad ogni costo al rinnovamento democratico delle strutture dello Stato”.

L’attendismo dunque come regola, l’inazione, l’attesa del “momento opportuno” il che corrispondeva all’esclusione delle masse popolari dai fatti decisivi della storia nazionale in una chiave anti-comunista.

Solo nell’aprile del ’44 con l’ingresso dei partiti antifascisti nel Governo del Sud, i timori furono in parte limitati pur rimanendo una profonda diffidenza, accresciuta dal timore che le unità partigiane, soprattutto quelle “rosse” potessero confluire nel futuro esercito regolare condizionandone a fondo il tratto politico.

La Resistenza Italiana, a cui i lanci di armi erano stati fatti avere con parsimonia (i primi, peraltro modesti, erano avvenuti il 23 dicembre 1943, a due mesi abbondanti dalle promesse di Certenago) avrebbe dovuto rappresentare “una ruota di scorta”, una semplice forza di supporto, “un’integrazione dello sforzo di guerra”, restando inesorabilmente schiacciata nelle proprie aspirazioni libertarie, impedita a liberarsi da sola. Era frequente in quel tempo qualificare negli ambienti Oss questa condizione di asservimento, come hanno rivelato gli studi di Roger Absalom dello Sheffield City Politecnic, con l’irridente espressione di “Kid” (“Kept Italy Down”, “Tenere l’Italia sotto il tallone”) e, in quelli del Soe inglese, con l’affermazione di Winston Churchill solo un po’ più benevola dei cugini americani di “lasciare che gli italiani comincino a darsi da fare per guadagnare il tempo perduto.

In realtà – questa è la sintesi politica – l’Italia avrebbe dovuto presentarsi al tavolo della pace di Parigi come un Paese sconfitto, ritenuto nel corso della lotta quale “cobelligerante” e non come alleato. Andò proprio così con il prevalere dell’Italia moderata a fronte delle istanze delle forze democratiche più avanzate, la spina dorsale della Resistenza iniziata sin dal lontano 1922 nelle patrie galere e nel confino politico.

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