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Attualità

MAROTTA, VARESINO DA EXPORT

MASSIMO LODI - 13/12/2013

Beppe Marotta con moglie e figli

“Il Liceo classico? Anni indimenticabili. Bellissimi. Formativi. Storie di amicizia e di studio, di scoperta d’umanità, di scambi d’idee e sensazioni. Storie di una vita che cominciava a essere davvero tale, ad assumere un profilo, a scrutare verso un orizzonte. Anni che hanno segnato la mia esistenza come quella, credo, di tutti gli altri che li hanno vissuti con me. Anni che mi porto dentro l’anima, incancellabili, rimpianti, preziosi”.

Beppe Marotta è orgoglioso d’avere ricevuto il Cairolino 2013, assegnatogli dagli Amici del Liceo Classico -l’associazione presieduta da Oreste Premoli- e consegnatogli venerdì scorso al Golf Club di Luvinate, presente Roberto Maroni con provocatoria sciarpa rossonera. Lo considera il premio più autorevole e insieme sentimentale che gli sia stato dato. Molto ambito, assai apprezzato. Soprattutto inatteso.

“Non me l’aspettavo – dice – e sono grato a chi ha deciso di fare questa scelta, per me così gratificante”.

A dire la verità è gratificante l’opposto: che gli Amici del Classico abbiano privilegiato – nel conferire il riconoscimento – un ex allievo di successo, celebrando il prevalere del merito. Che successo, poi. General manager di numerosi club calcistici – Varese, Monza, Ravenna, Como, Venezia, Atalanta, Sampdoria – e infine amministratore delegato della Juventus. Il top del top, nel mondo del pallone. Infine, la storia speciale: partito dal nulla, arrivato sulla cima. Da solo, senza l’aiuto, la spinta, l’accompagnamento di nessuno. Self made man esemplarmente tipico.

L’avventura cominciò da Varese, proprio all’indomani della maturità classica, anno 1978. Marotta frequenta già la società biancorossa, allora sotto il patronato della mitica famiglia Borghi: onnipresente allo stadio Ossola di Masnago, si occupa d’un po’ di tutto, è benvoluto da giocatori e dirigenti. D’improvviso si apre la possibilità di guidare il settore giovanile. Lui, appena iscrittosi a Giurisprudenza, accetta. L’impegno è totalizzante, gli studi universitari dovranno ben presto essere messi da parte, il calcio non ammette distrazioni.

“Ho ancora il rammarico – confessa – di non aver potuto concludere il percorso accademico che avevo iniziato. Ma nello sport succede spesso, quasi sempre: se ti vuoi dedicare con la massima professionalità al tuo incarico, devi scordarti il resto. Un peccato”.

Così un peccato, e così un rincrescimento, che Marotta è stato tra i più convinti sostenitori d’un progetto unico nella storia dei club calcistici: l’istituzione d’un liceo Juventus, cinque anni di corso, studi parificati, oggi centoquindici allievi. I ragazzi che scelgono Torino per tentare una carriera da sogno, vengono agevolati nel non assegnare al cassetto dei sogni il diploma di scuola media superiore.

Marotta conquistò il suo insieme con il plotoncino della sezione F. “Bella classe” ricorda con più d’un filo di nostalgia. “Una mista, ragazzi e ragazze in gamba. L’amico più caro era Mauro Marocco, abitavamo entrambi ad Avigno, avevamo frequentato insieme elementari e medie. Praticamente inseparabili. M’incuriosivano alcuni compagni che venivano dal seminario, avevano già definito il loro itinerario di vita, mostravano certezze mentre molti di noi coglievano nel loro presente il contrario: l’incertezza. Uno, estraneo al gruppetto dei seminaristi e originario di Besozzo, sarebbe diventato frate francescano, chissà se gli furono d’ispirazione quei modelli.

Capimmo allora cosa significavano amicizia sincera, solidarietà di sostanza, anche bonaria complicità qualche volta. Verso i professori c’era rispetto, e perfino ammirazione. Per Bruno Mainetti, per esempio: autorevole, capace, d’originalissimo tratto umano. Anche per Giovanni Bertolè Viale, che non insegnava da noi, ma era un’istituzione riverita della scuola. E per il preside Felice Bolgeri, uomo comprensivo, dialogante, di opportuna indulgenza quand’era il caso”.

Nato il 25 marzo del ’57, quattro mesi di residenza a Ghirla e poi il trasloco a Varese con papà Giovanni e mamma Maria, Beppe ha un fratello, Salvatore, e una sorella, Pinuccia. È sposato con Cristina, genovese, che gli ha regalato due meravigliosi gemelli, Giovanni ed Elena. Vuole bene alla sua città d’origine, vi ritorna spesso, non ha abbandonato lontane sodalità, né scordato numerose conoscenze, e non guarda con snobismo al “milieu” di provincia dal quale proviene. Al contrario: avverte l’orgoglio d’appartenervi, ne apprezza la cifra identitaria. Non l’ha mai smarrita, nel lungo girovagare pallonaro che l’ha condotto fino a casa Agnelli.

La chiamata bianconera venne da una telefonata di Santalbano, amministratore delegato della Exor, la finanziaria dell’impero Fiat. Gli comunicò che erano interessati alla sua collaborazione. Al primo contatto seguirono il colloquio con il presidente Andrea Agnelli, l’intesa a prima vista, il rapporto professionale che in fretta diventò qualcosa di più, un’amicalità forte.

“Il calcio d’oggi – sottolinea Marotta – è diverso da quello di tempi lontani e meno lontani. Il mecenatismo è scomparso, le società vanno guidate con i criteri che sovrintendono a qualunque impresa economica, però la sintonia umana in un’équipe dirigenziale è d’importanza primaria”.

Forse è ciò che serve per marcare la differenza con gli altri. Non solo cifre, dunque: anche cuore. Il cuore Juve, poi, è (dev’essere) un cuore grande. “Avvertiamo la responsabilità d’esaudire i desideri di milioni di tifosi, d’essere all’altezza dell’impegno che ci chiedono, di corrispondere a quella che in fondo è una missione”.

La missione che si sostanzia nello stile Juventus: rappresentare un archetipo di sport e di comportamento, di competitività e di rispetto. La cosa più importante non è vincere, ma vincere in un certo modo. Per vincere davvero e nel tempo, e non ogni tanto e magari per caso. D’un tale sacerdozio della vittoria Beppe Marotta ha imparato tanto bene gli obblighi liturgici da poterne ormai essere considerato un insegnante. Chi l’avrebbe immaginato, all’epoca in cui l’immaginazione correva, solitaria e ingenua, sugli scricchiolanti banchi di via Dante.

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