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Storia

LA SANTA NOTTE NEL LAGER

FRANCO GIANNANTONI - 19/12/2013

Giuseppe Meazza

Due agende tascabili. Gli anni sono quelli drammatici del 1943 e del 1944. Gli appunti sono redatti con calligrafia regolare in matita e a penna. Pezzi di carta che propongono senza silenzi, il dramma umano e militare del capitano degli alpini del battaglione “Intra” del “4° Reggimento Alpini” Giuseppe Meazza, classe 1912, “volontario di guerra” che dal Montenegro, ultima tappa dell’avventura fascista, dopo il fronte italo-francese e l’Albania, “la terra dei quattro sassi” come l’aveva sprezzantemente definita Vittorio Emanuele III di cui diventerà il re, finisce nei campi di concentramento tedeschi pagando, con altri seicentomila compagni, il prezzo delle follie di Mussolini e del suo rapporto criminale con Hitler.

Le agende sono frutto di quel tempo di guerra, inzuppate di lacrime e attraversate da violente tensioni, incertezze, sbandamenti, speranze. Giuseppe Meazza, varesino puro sangue, alpinista, giornalista della “Cronaca Prealpina”, già padre di una bimba, Donatella, che non ha mai visto perché il duce, quando era in grembo alla madre Mariuccia, lo ha mandato a sparare ai suoi simili in mezza Europa, è un figlio di “quella generazione perduta” come fu definita da Ruggero Zangrandi, autore del memorabile “Il lungo viaggio attraverso il fascismo”, educata nelle scuole del regime ai miti dell’Impero e del Littorio, conquistata dai successi nel cielo di Balbo e Ferrarin, lo squadrista e il gentiluomo, accecata dalla propaganda quotidiana degli Starace di turno sino alla certezza di avere ai propri piedi un destino di gloria. Fu, com’è noto, un terribile abbaglio.

Giuseppe Meazza nei taccuini, preziosi per capire il dramma di quegli uomini che vedevano lentamente e crudelmente sfiorire con le loro vite i loro fragili sogni, scrive il suo dolore. Lo fa senza retorica. Ricorda la città e la moglie, sogna la figlia, i genitori, i compagni di lavoro, i tanti amici che ha lasciato a casa, le sue montagne che ha scalato con il furore di una passione travolgente, dal Campo dei Fiori al Monte Rosa soprattutto, la “montagna prediletta” con Cristofaro, Minazzi, Campiotti e tanti altri. Registra anche i brandelli di notizia che arrivano al campo. Sa dell’armistizio dell’8 settembre. Il 13 settembre annota: “Mussolini fugge a Monaco e lì costituisce un nuovo governo. Porco! Vuole fare spargere nuovo sangue”. Il 26 novembre annota nella baracca del lager di Meppen-Hannover: “Un mese oggi anche il Natale sarà passato. Ove e come lo trascorrerò?”. Scambia (il baratto era la sola forma commerciale possibile senza essere visti) mezza razione di brodaglia schifosa con una sigaretta. Si domanda se sia il caso di optare per il nuovo governo della RSI e poi giunti in Italia scappare. Farà così come tanti altri. Il richiamo della famiglia è troppo forte. Si va in un nuovo campo, ora è quello di Posen, l’attuale Poznam, in Polonia.

Intanto il Natale è alle porte. Meazza spera che, nell’occasione, sia distribuito qualcosa di meglio della “sbobba” rituale. “Ora infatti – scrive Meazza – è lo stomaco che dirige i nostri discorsi”.

Diario del 24 dicembre 1943: “Vado alla baracca 36 dove ammiro i lavori d’arte dolciaria preparati per Natale: budini, crostate, torte! E il tutto con pane, patate, zucchero e margarina. Viene Girotti a trovarmi e mi offre metà sigaretta. Il morale nelle nostre baracche, a causala Santa Notteche tanto ci ricorda la casa, oggi è molto scosso. Ci guardiamo negli occhi, lucidi come non mai, non si parla. Vado nel pomeriggio da Redaelli. Si parla di Varese e del suo Natale”.

Quando arriva il giorno benedetto il commento è stringato. Pena e nostalgia si confondono in una mistura angosciosa.

Ancora il Diario: “Natale 1943! Prigionia – reticolati – Messa Natalizia nella baracca-Cappella del lager. Attorno la steppa russa. Pranzo: minestra d’orzo e pasta,5 grammidi margarina, 50 di pane. Una sigaretta “Zara”. Cena: insalata di patate e crauti con l’ultimo goccio d’olio. Poi fettuccine di pane con margarina e zucchero. Vado a trovare Figini che mi offre un poco di budino. Girotti due foglie di tabacco. Da Figini e Ghiringhelli gusto magnifici budini. Natale!”.

Il giorno dopo, Santo Stefano, il clima non cambia.La Messa e la vista della steppa innevata e desolata.

Questo fu anche il fascismo, la prigionia disperata di migliaia di innocenti.

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