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Cultura

RISCATTO DI EBENEZER

MANIGLIO BOTTI - 19/12/2013

Ebenezer Scrooge parla al fantasma di Marley

Da più di un secolo a questa parte non v’è scuola britannica, o americana, che almeno una volta, nel periodo delle feste di fine anno, non organizzi una recita basata sul Canto di Natale (A Christmas Carol) di Charles Dickens. La tradizione – come altre di ispirazione anglosassone, ma questa di certo non ha agganci commerciali o ludici – s’è trasferita anche da noi, tanto da divenire – il Canto di Natale – uno dei pezzi forti delle nostre filodrammatiche e delle rappresentazioni di molti oratori e istituti scolastici.

La storia dickensiana è così nota che anche il cinema ela Tv l’hanno spesso saccheggiata o dandone resoconti fedeli o riferendosi a essa e la ripropongono quasi sempre a ogni periodo natalizio. Si pensi solo per quanto riguarda il cinema alle affinità con il bellissimo film di Frank Capra “La vita è meravigliosa” (It’s a Wonferful Life, del 1946, con James Stewart e Donna Reed, dove però ci sono delle libere trasposizioni: l’avaro Ebenezer – Mr Potter – è interpretato da Lionel Barrymore e lo spirito-Angelo presenta invece al protagonista Bailey-Stewart, che ha tentato di farla finita, come diventerebbero la sua casa e la sua città senza di lui) e numerose puntate di trasmissioni e film tv più o meno apertamente ispirati alla vicenda.

La riassumiamo in breve. Il personaggio della storia è Ebenezer Scrooge, misantropo, solitario, avarissimo, privo di un qualsivoglia sentimento di umanità e di generosità. Il nome Scrooge, soprattutto nel mondo anglosassone, è divenuto sinonimo di avarizia e di tirchieria, un po’ come l’Arpagone di Molière, il quale a sua volta aveva preso spunto da Plauto (ma qui le tematiche a dire il vero si allargano un po’…). Non è un caso che Walt Disney abbia battezzato quello che da noi è Zio Paperone con il nome di Uncle Scrooge (e Paperoni sono poi diventati tutti i ricchi e gli arcigni signori, quelli che a detta del Vangelo farebbero una gran fatica a passare nella porta del Cielo, mentre più facilmente un cammello o una grossa fune attraverserebbe la cruna di un ago).

Siamo alla notte di Natale, dunque. Ebenezer che s’è ritirato malmostoso e solo nel corso della notte si vede visitato a partire dall’una da tre spiriti: quello del Natale del Passato, quindi a seguire quello del Natale del Presente e, infine, quello del Natale del Futuro. Sarà in particolare quest’ultimo spirito a mostrare allo Scrooge il suo destino comune e la sua fredda tomba. Con una possibilità di riscatto, però, che deriva dal ricordo e dalla nobiltà dei sentimenti che nessuna morte può scalfire: “Oh Morte, ergi qui il tuo altare… Ma a una testa amata, riverita e onorata, non potrai torcere un solo capello o rendere odioso un tratto del volto per soddisfare i tuoi disegni crudeli…”.

Lo stile gotico e cruento – Charles Dickens aveva scritto il Canto di Natale nel 1843 – favorisce quel che si dice lo scatto di reni di Ebenezer, il quale capisce l’antifona e recupera bonomia e generosità. Trascorrerà il Natale con la famiglia dell’“amato” nipote Fred (il figlio della sorella), farà recapitare un tacchino nell’abitazione del vessatissimo dipendente Bob Cratchit, cui anzi aumenterà lo stipendio, prendendo a cuore anche le sorti del suo figlioletto Tim. Le parole finali del Canto e la storia della generale remissione di Ebenezer sono esemplificative: “Non ebbe ulteriori rapporti con gli spiriti, ma da allora in poi visse secondo il principio di assoluta temperanza; di lui si disse sempre che sapeva interpretare il Natale, se una tale conoscenza fu mai conferita a un vivente. Che una cosa simile possa esser detta anche di noi, di tutti noi! E, come osservò Tiny Tim, Dio ci benedica, ci benedica tutti”.

La critica letteraria ha scandagliato nel profondo le opere di Dickens, attribuendo loro talvolta grandi meriti tal’altra riscontrando l’eccessiva e superficiale compiacenza nel vellicare i desideri del “popolo” dell’Inghilterra vittoriana. Per quanto riguarda “A Christmas Carol”, a decretarne la grandezza, bastano le riflessioni che il dramma ci induce a fare – almeno una volta l’anno – non già sul Natale, ma sulla ricchezza e sulla povertà, sulla carità, sul nostro rapportarci con gli altri e, in definitiva, sul senso della vita. Vengono in mente anche alcune recenti parole di papa Francesco: “Ma tu, quando fai l’elemosina guardi negli occhi la persona cui ti rivolgi o li distogli come per fuggire da lei? Tocchi amorevolmente la sua mano?”.

Il lieto fine e la redenzione di Ebenezer sono – a ben vedere – le parti più ottimistiche e forse più utopistiche della storia. E ci sovviene allora un altro personaggio della letteratura, il Mazzarò di Giovanni Verga, un molto più realistico Ebenezer all’italiana, il quale non già quando glielo fa vedere uno spirito ma quando glielo dice un medico o un sacerdote, che la sua vicenda terrena sta per chiudersi, e che è giunto il momento di pensare anche all’anima oltre che alla roba “…uscì nel cortile come un pazzo, barcollando, e andava ammazzando a colpi di bastone le sue anitre e i suoi tacchini, e strillava Roba mia vientene con me!”. Ma la sua roba non sarebbe mai riuscito a portarsela dietro.

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