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Cultura

MALEDETTI LIBRI

LINDA TERZIROLI - 10/01/2014

Non si parla qui di Ministero della cultura popolare, ovvero della censura ai tempi di una certa dittatura, infatti il sottotitolo parla chiaro: “Processi, sequestri e censure a scrittori e editori in Italia dal dopoguerra a oggi anzi domani”. Il volume imponente (oltre mille pagine tra libro e materiale giudiziario su CD, per la casa editrice Aragno) si intitola “Maledizioni” e gioca appunto con la parola edizioni e col male che alcuni libri volenti o nolenti si sono trascinati con sé. Nel loro difficile destino editoriale perché ogni scrittore sa bene quale fitto mistero avvolga la vita futura di un libro che esce fresco di stampa dalla tipografia. Tuttavia, come sempre, non tutto il male vien per nuocere, anzi alcuni libri scandalosi diventano bestseller in virtù o a causa della loro dannazione, in primis “Ulysses” di James Joyce, un classico anche in questo senso (“romanzo che anticipa e contiene tutti i successivi anche dal punto di vista penale”), D. H. Lawrence e Miller, e Pasolini e Moravia, tanto per citare i più noti. Ma sono gli scrittori meno conosciuti, quelli non balzati agli onori delle terze pagine a emergere con curiosa prepotenza in questo volume.

I titoli in questione sono stati tradotti, a partire dalla fine degli anni Quaranta, a viva forza dentro i palazzi di Giustizia e, a volte, delle copie al rogo e al macero si salvava semplicemente un volume, un misero cadaverino cartaceo per infiammare le notti di qualche giudice incaricato del caso. Infiammare le notti, sì perché non c’è niente che, come un libro, possa accendere l’immaginazione più libera, e più libertina. Si tratta di quarantadue capitoli che racchiudono circa cinquanta casi di libri processati, di autori italiani e stranieri e l’ideatore e scrittore di questo corpus – un lavoro, a dir poco, certosino e titanico –, il giornalista Antonio Armano, ha attraversato l’Italia, esplorando tribunali e ficcando il naso dentro a sentenze polverose, aprendo le porte degli archivi, talvolta faticosamente, come lui stesso ha spiegato. L’Italia che ne viene fuori è un’Italietta bigotta, moralista, che arrossisce e si scandalizza, ma intanto legge e… denuncia, stracciandosi le vesti (ma non troppo).

Se la censura parte quasi sempre da una denuncia, chi sono dunque questi volenterosi censori, armati di forbici? Oltre ai “sodalizi cattolici”, “gruppi di insegnanti, questori, preti, militanti missini”. L’episodio certamente più eloquente, per sentire il polso di questa mentalità piccola piccola, è quello della giovane operaia della tipografia Chicca di Tivoli che sbircia tra le pagine del libro di Giuseppe Iorio, che sta andando in stampa, “Il fuoco del mondo” e, secondo la testimonianza dell’autore poi sequestrato, “corre fuori col foglio in mano e urlando secentescamente come la Veronica del Mochi”. Insomma si scandalizza e ha la forza di sollevare il polverone. C’è da chiedersi chi oggi sarebbe ancora disposto a denunciare, a fare un esposto per oltraggio al pudore. Ora come allora sono i giudici, in un colpo più che critici letterari, chiamati a diventare arbitri della morale.

Il punctum dolens, al di là delle vicende a dir poco incredibili di alcuni volumi, è la questione sofistica dell’opera d’arte perché, secondo quanto afferma il codice penale, in base all’articolo 529, secondo comma, “non si considera oscena l’opera d’arte o di scienza” e, al contempo, il reato per la pubblicazione di un romanzo osceno prevede la reclusione da tre mesi a tre anni, secondo l’articolo 528. Entrambi ancora in vigore nascono insieme al codice Rocco del 1930. Tutti ricordano la censura fascista ma il vero problema salta fuori nel 1948, all’interno della Costituzione, dove viene inserita, alla fine dell’articolo 21, pietra miliare della libertà di stampa e di espressione, la pietra dello scandalo, cioè il sesto comma che recita: “Sono vietate le pubblicazioni a stampa, gli spettacoli e tutte le altre manifestazioni contrarie al buon costume”.

I giudici, di fronte a queste querelle letterarie e, assai spesso, linguistiche, si arrovellano domandandosi se si tratti di un’opera d’arte o no, come novelli crociani: “Nel complesso la magistratura ne esce molto meglio di certi settori della società italiana”, anche se, paradossalmente, dopo il fascismo c’è stata una certa continuità nella privazione della libertà d’espressione e di stampa. Leggere “Dei delitti e delle penne”, come è stato acutamente ribattezzato questo volume, citando il Beccaria, significa fare un tuffo nella società italiana dal secondo dopoguerra in poi ma significa anche altro. Innanzitutto il suo vero pregio non sta solo nel rimestare nelle torbide acque del nostro passato presente ma consiste anche nell’affrontare ogni caso con il piglio deciso e indagatore del giornalista che spesso si trasforma in un vivace narratore.

Ogni capitolo ci fa planare sulla vita dello scrittore, nei suoi dubbi, tra le sue pene e i suoi tormenti di varia natura. Il libro ci accompagna alla scoperta di una vita che ben difficilmente si scinde dall’opera nel destino infausto di un libro si abbatte sul suo autore, mentre l’inchiostro della sua penna diventa il veleno della sua condanna. Difficilmente si può abiurare, ritrattare e rinnegare quello che è stato scritto. La vera condanna è vedere, dopo averla composta, la propria opera sottratta agli occhi dei lettori. “Maledizioni” è un libro-inchiesta, che si legge come un romanzo, sui processi ai libri ma anche sulle traversie dei loro autori perché “ogni processo cui si è sottoposti è un processo alla propria vita”, come ha scritto Oscar Wilde nel “De Profundis”.

Armano non adopera circonlocuzioni o perifrasi per dire quel che è stato scritto e censurato e proibito, cerca di dire la verità nuda e cruda e forse è proprio l’effetto dell’ironia che, castigat ridendo mores, a rendere il libro così divertente e godibile. Il turpiloquio qui non è bandito, anzi ci ricorda che il registro linguistico è uno spartito dove tutte le note servono a scrivere, comprese le sacrosante parolacce. La libertà di pubblicare e dire pane al pane e vino al vino è forse ancora oggi un miraggio – l’ultimo caso, quello che riguarda la biografia della poetessa Antonia Pozzi, non è ancora concluso – ma, dopo tutto, rivela con un amaro sorriso l’autore, se le espressioni censurate non sono così scottanti, è il perbenismo il peggiore dei mali.

Alla fine l’impressione è quella di aver letto una controstoria della letteratura, che racconta la malasorte giudiziaria di molti e importanti titoli del ‘900 – dall’Ulisse di Joyce a “Ragazzi di vita” di Pasolini passando per “L’amante di Lady Chatterley”. La censura non è stata un aspetto folcloristico che riguarda certi decenni della storia italiana ma un fenomeno del ‘900, non del tutto risolto, casomai cambiato, che caratterizza paesi di tutto il mondo e ha influenzato l’evolversi del costume e dell’editoria.

Non si tratta solo di oscenità, anche altri reati vengono presi in considerazione come il vilipendio della religione o delle forze armate. E non è tutta acqua passata: negli ultimi tempi, al posto dell’offesa al pudore, lo spauracchio degli scrittori è la diffamazione a mezzo stampa (i casi di Loriano Macchiavelli e del romanzo “Strage”, oltre alla già citata biografia della poetessa Antonia Pozzi). Alcuni editori cercano di tutelarsi inserendo nei contratti la famigerata manleva che si solleva da ogni responsabilità legale per l’opera in questione, vedi Mondadori che per questo è stata abbandonata da Busi.

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