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Attualità

FELICITÀ SULLA TERRA

VINCENZO CIARAFFA - 10/01/2014

La controversa disinfestazione a Lampedusa

All’inizio di un nuovo anno si vorrebbero trovare le parole giuste per alimentare / rinfocolare nel lettore quel sentimento che, in fondo, è lo stesso che consente il progresso e la sopravvivenza di popoli e nazioni: la speranza in un avvenire migliore. Noi, però, siamo anche seguaci di chi disse «Io sono la via e la verità…» e, pertanto, sentiamo – pressante e ineludibile – l’obbligo morale di raccontarla la verità, per come ci è possibile, per quanto ci sia possibile, per come la percepiamo.

 Mentre il vecchio anno, stanco e disgustato, usciva di scena tra i clangori suscitati ad arte sui presunti maltrattamenti subiti a Lampedusa dai migranti, la Camera, ricorrendo al voto di fiducia, approvava la legge di stabilità per il 2014 e la medesima cosa ha fatto il Senato l’antivigilia di Natale. Per quanto non siamo degli esperti finanziari, non ci è parso d’intravedere in questa legge un qualche ordito riformatore, dei provvedimenti capaci di ridare una speranza agli italiani ma, anzi, rileviamo che la strada seguita dal governo è stata quella di sempre: regali agli amici degli amici, a spese nostre, e l’imposizione di nuove tasse anche se ben camuffate o addirittura occulte.

Infatti, non sapremmo chiamare diversamente la correzione delle detrazioni sulla prima casa (altro che abolizione dell’IMU) e il non avere voluto fissare il tetto dell’1 per mille sulla tassa comunale dei servizi indivisibili, la TASI, che resta, dunque, al 2,5 per mille come se, in realtà, fosse una seconda casa, col rischio che l’IMU uscita dalla porta rientri, poi, dalla finestra perfino maggiorata. A parte che per varare una legge di stabilità tutte tasse e “rimodulazioni” (leggasi fregature) bastava un ragioniere mediamente sveglio, a preoccuparci è l’incapacità di questa classe politica e dirigente a capire l’origine storica dei nostri guai e per cercare, in qualche modo, di porvi un’utile toppa. Ammesso che ciò sia ancora possibile, beninteso.

Orbene, il padre di tutti i guai italiani ha un nome che riteniamo, non susciti ancora abbastanza terrore in chi lo pronunzia: debito pubblico! Sì, perché tale, orrido “mostro” – oltre duemila miliardi di euro – sta divorando il reddito prodotto dal Paese e, perciò, gli interessi che dobbiamo pagare per saziarlo/finanziarlo sono superiori allo reddito stesso, è un po’ come se continuassimo a versare acqua in un secchio bucato. Ma la cosa ancora più brutta è che, di fronte a cotanto sfacelo per il quale nessuno in Italia è immune da colpe, non esistono soluzioni praticabili, a meno di non volere imporre ai contribuenti un regime impositivo di tipo schiavistico. Per abbattere il debito pubblico, infatti, non sono possibili scelte che non sia quella dell’eliminazione dello “Stato sociale”, dei tagli agli investimenti, agli stipendi, alle pensioni e l’inasprimento della leva fiscale senza che, poi, questa faccia calare di un centesimo l’iperbolico debito.

Sta di fatto che, senza il corrispettivo delle tasse in servizi, sottoposti a un’asfissiante manovra economica che dura da quarant’anni, la rivolta dei cittadini sarebbe soltanto una questione di tempo. Purtroppo, è proprio in quella direzione che stiamo andando! In proposito è interessante andare a leggere che cosa scrisse, nel libro “I debiti degli italiani”, Dino Pesole, un giornalista esperto di fisco e finanza pubblica del quotidiano Il Sole 24 Ore: «Da questa rabbia […] possono derivare tre soluzioni pericolose che potrebbero portare a veri e propri cambi di regime. […] La dissoluzione dello Stato unitario; la fuga verso l’autarchia; la perdita di sovranità. […] Il rifiuto del debito pubblico è il rifiuto di chi non si ritiene responsabile di un debito contratto da un regime di cui non si condividono i principi e i cui benefici sono andati a soggetti ritenuti diversi. I giovani possono pensare che devono pagare i debiti contratti dai padri; le regioni ricche (il Nord d’Italia) pensano di dover pagare per i benefici e gli sprechi fatti per regioni assistite (il Sud d’Italia); i lavoratori pensano di dover pagare per i vantaggi dati alle imprese e al ceto che ha garantito la stabilità di una certa classe politica; le imprese pensano che si pagano gli eccessi di uno Stato sociale dissennato, volto a quietare un sindacato esigente […] le piccole imprese sono contro le grandi imprese che hanno beneficiato dei grandi progetti e delle scelte fondamentali del paese; […] la gente è contro i politici e i partiti; questi ultimi rimproverano ai ceti popolari l’aver ceduto alla demagogia e al qualunquismo».

Sembrano parole scritte ierlaltro e, invece, eravamo nel 1996! A questo punto si capisce benissimo chi ha fertilizzato il campo nel quale sono sbocciati i “grillini”, i “forconi” e tutti quei movimenti protestatari che, temiamo, nei prossimi mesi sorgeranno come funghi in tutto il Paese.

Anche il movimento cosiddetto dei forconi è il paradigma della sconfitta della classe politica laddove si considera che esso ha fatto proprie quelle istanze che furono il cavallo di battaglia del centrodestra e di una Lega ormai condannata a uno squallido tramonto tra cerchi magici, diamanti, lauree taroccate e perfino mutande comprate con i soldi del finanziamento pubblico ai partiti.

Poi ci viene un travaso di bile tutte le volte che la classe politica, tanto di destra, quanto di sinistra, decanta le mirabolanti imprese dell’euro, fingendo di non capire che abbiamo adottato una moneta «…inesistente e indifendibile nella sua forma attuale, solo un fesso può difendere l’euro così com’è. A livello europeo non abbiamo avuto vantaggi della sua introduzione». E l’autore di queste parole, Giacomo Vaciago, non è né un qualunquista, né un demagogo, tantomeno un grillino arrabbiato, ma un valente docente di economia monetaria all’università Cattolica di Milano.

Ecco, l’anno nuovo si apre con queste prospettive e all’insegna di una depistante truffa mediatica, quella dei migranti maltrattati a Lampedusa: in realtà si è trattato di una normalissima operazione di disinfestazione dall’acaro della scabbia (che va fatta su individui denudati!) iniziata senza avere mezzi più raffinati a disposizione, mezzi che avrebbe dovuto fornire quello stesso governo che si è dichiarato esterrefatto per l’accadimento. La protesta dell’Unione Europea fa addirittura imbestialire giacché sono anni che essa, tramite i suoi vari rappresentanti, ha ripetuto in tutte le lingue che quello dei migranti che dall’Africa puntano su Lampedusa è un problema solo italiano e oltre una visita di circostanza di Barroso a Lampedusa non è mai andata.

Ma via, cerchiamo di essere seri: ci mancava soltanto l’indignazione a comando di Alfano (che qualche mese fa aveva proposto il Nobel per Lampedusa…), Letta, della Boldrini e dell’Unione Europea, gli stessi che, con funzioni diverse, avrebbero avuto il compito e il sacrosanto dovere di fornire i mezzi all’insufficiente struttura di accoglienza lampedusana.

Giusto per riportare l’accadimento alle sue giuste proporzioni, bisogna avere il coraggio di fare un po’ di chiarezza. Il migrante denudato e che – in mancanza di altri mezzi profilattici – è stato irrorato con liquido disinfestante contro l’acaro della scabbia, era niente in confronto alla visita di leva che facevamo ai nostri tempi, quando in fila indiana procedevamo nudi come vermi in immensi e freddissimi stanzoni per essere “scrutati” da un ufficiale medico mentre cercavamo disperatamente di coprire con le mani la nostra pudenda.

Tutta la caciara, però, ha raggiunto lo scopo, ha distolto l’attenzione degli italiani dalle porcate a loro danno contenute nella legge di stabilità. Indugiare, perciò, nei canonici auguri di buon anno alla presenza di tali presupposti e prospettive, sarebbe come prendervi per i fondelli, cari amici di Rmf, e perciò lo scrivente sente di potervi rivolgere, con affettuosa sincerità, soltanto un’esortazione: «Cercate di conquistarvi la felicità su questa terra!». E badate bene che quest’esortazione non proviene da un giacobino epicureo ma è stata direttamente mutuata dalla prima lettera ai tessalonicesi, versetti 5-16, di San Paolo.

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