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Politica

LA PRIVATIZZAZIONE DELLA CITTÀ

CAMILLO MASSIMO FIORI - 17/01/2014

Città compatta e fascia verde in Inghilterra

L’assessore Fabio Binelli nel presentare al consiglio comunale il Piano di Governo del Territorio ha sintetizzato in tre “principi” la filosofia del nuovo strumento urbanistico. Il primo è “la libertà intesa come centralità delle persone e quindi libertà di azione”. Il secondo “la sussidiarietà come ruolo centrale dei privati” ed infine il terzo cioè “l’identità come storia di Varese” (cfr: “La Prealpina” del 6 Dicembre 2013).

La città è stata il crogiolo da cui sono sorte le grandi civiltà ed originariamente era luogo ben delimitato da spazi di campagna e di foresta che, separandone i confini, ha permesso la nascita delle identità locali. L’identità è una questione complessa tant’è che nella società postmoderna è un valore ambivalente, di coesione ma anche di esclusione, tuttavia una comunità coesa si raccoglie intorno ai segni della sua storia (i monumenti), ai principi (le regole) e ai valori condivisi dalla sua gente.

Il nuovo P.G.T. parla di identità ma la interpreta soltanto come vissuto della popolazione senza conseguenze per l’oggi e il domani; la città delineata è un aggregato urbano risultante dall’iniziativa dei singoli individui, al di fuori di un disegno di sviluppo da parte dell’operatore pubblico. La Varese del futuro sarà una informe coniugazione urbana in cui saranno pressoché cancellate le tracce della nostra storia.

CROGIOLO DELLA CIVILTÀ

L’autorevole storico Henry Pirenne ha scritto: “La città antica era assolutamente distinta dalla campagna circostante. Ne era separata anche materialmente dalle mura, dai fossati e dalle porte che la proteggevano dai nemici”.

La situazione fu capovolta con la “rivoluzione industriale” del XIX secolo che vide la nascita delle fabbriche che attrassero nuovi abitanti entro la città e, soprattutto, dalla diffusione planetaria dei mezzi individuali e collettivi di trasporto nel Novecento che stimolarono la diffusione urbana ben oltre i confini naturali e tradizionali. Oggi non c’è più distinzione tra il “dentro” e il “fuori”, tra la campagna che produce le risorse e la città che le consuma; le industrie si sono trasferite dal centro alla periferia; i quartieri di abitazione sorgono per disseminazione in quanto sono facilmente raggiungibili con le automobili; le tangenziali e le autostrade favoriscono i nuovi insediamenti.

Nel dopoguerra si affermarono in molti Paesi occidentali correnti culturali in favore della “città compatta” limitata nelle sue dimensioni attraverso l’utilizzo razionale del suolo. Quello di Londra è stato un caso esemplare: la grande città venne isolata a difesa da una striscia verde profonda fino a trenta chilometri; all’interno della “green belt” si costruì solo nelle zone abbandonate dalle industrie, negli spazi inutilizzati o dimenticati, ricostruendo e restaurando gli edifici dismessi. L’esuberante popolazione venne indirizzata verso le “new town” che sorsero e debita distanza dalla capitale ma furono collegate ad essa tramite “varchi” ferroviari e stradali. Il risultato fu una nuova Londra non più inquinata e paralizzata dal traffico. L’esempio venne ripreso da numerose metropoli; la “città densificata”, abbreviando i percorsi, decentrando i servizi e gli edifici pubblici anche nelle periferie, ha permesso una migliore sostenibilità ambientale e ha reso molti centri urbani nuovamente fruibili da parte della popolazione.

L’Italia che negli anni Trenta aveva fatto da battistrada nella pianificazione urbanistica è rimasta ferma nella legislazione che è sostanzialmente ancora quella del Fascismo e ha permesso che l’ambiente e il territorio fossero devastati da una cementificazione che non ha l’eguale in Europa.

PRIVATIZZARE IL BENE PUBBLICO

Già si sapeva che la differenza sostanziale tra i due strumenti urbanistici è l’attenuazione dei vincoli prescrittivi in favore della contrattazione tra privati e Comune. Questo spostamento dell’asse centrale dell’urbanistica dal pubblico al privato nasceva dalla constatazione che i vincoli erano violati e che i piani regolatori venivano sistematicamente aggirati con le varianti e le sanatorie.

Il nuovo piano urbanistico poteva avere un significato e una precisa funzionalità se fossero stati indicati in maniera meno approssimativa gli obiettivi e i modi della espansione della città per concorrere a salvaguardare i caratteri costitutivi della sua identità.

Ciò non è avvenuto e il piano si libera di norme che erano al servizio del “bene comune” per introdurne altre che sono, in sostanza, regole di comportamento per i privati che diventano i veri protagonisti del futuro urbano.

Ma il territorio, come tutti i beni materiali, non solo è limitato ma, una volta consumato, non c’è più e con la sua scomparsa vengono meno le condizioni di vivibilità e di abitabilità di un luogo.

La libertà illimitata in quanto applicata ad un bene limitato diventa un’idea astratta e astrusa che

permette a pochi, i più forti e i più ricchi, di godere di un bene collettivo destinato a tutti.

È una reviviscenza dei principi liberisti che hanno artificiosamente legittimato il “capitalismo di rapina” che distrugge i beni comuni nell’interesse privato di pochi.

Metà del nostro piccolo pianeta è già antropizzato per la presenza di oltre sette miliardi di abitanti, che diventeranno dieci miliardi a fine secolo; le zone destinate alla produzione di cibo e di risorse ambientali sono diventate scarse e l’Italia non è più autosufficiente.

LA CITTA’ DIFFUSA

L’estensione della città, la disseminazione urbana fa scomparire le aree verdi e le terre coltivabili, provoca il dissesto idrogeologico, altera le condizioni climatiche, alimenta il traffico automobilistico che a sua volta genera inquinamento.

La “città diffusa”, estesa su vasti territori, non è compatibile con il futuro dell’umanità; l’uomo non può vivere in un habitat privatizzato da una proprietà senza limiti, spesso irresponsabile, generatrice della “rendita urbana” economicamente improduttiva perché non deriva dall’impegno e dalla abilità umana, ma dalla espansione edilizia che produce profitto ma non ricchezza, anzi è dannosa per l’intera società.

La città estesa su vaste aree non è più sostenibile neppure dal punto di vista tecnico e funzionale; infatti le “reti” che la collegano mettendo a disposizioni degli abitanti l’energia, le comunicazioni, gli impianti idrici, i canali fognari, le strade di collegamento, non possono essere prolungate indefinitivamente e, in ogni caso, comportano sempre un costo alternativo, a cominciare dal traffico che è sempre più difficile regolare.

Collegare i centri vicini, omogeneizzare le “periferie”, salvaguardando tuttavia le residue aree verdi,

è un impegno sottovalutato dal P.G.T. ma è un problema distinto rispetto alla necessaria distinzione e separazione dei nuclei originari. Se scompare la campagna, scompare anche la città.

Le città originariamente erano luoghi ben delimitati da spazi di campagna e di foresta che, segnandone i limiti, hanno permesso la nascita delle identità locali.

IL SENSO DEL LIMITE

Lo strumento urbanistico predisposto dal Comune si muove in direzione contraria rispetto all’esperienza urbanistica europea; esso affronta alcuni nodi importanti come la sistemazione di piazza della Repubblica, dell’area Aermacchi, delle stazioni ferroviarie, delle Ville Ponti offrendo soluzioni alle volte interessanti oppure opinabili, ma sempre nel segno della intensificazione edilizia e spesso ignorando le interazioni di queste aree strategiche con lo sviluppo della città, anche come moltiplicatori del traffico. Unificando le stazioni si gettano alcune migliaia di metri cubi di cemento in una zona fragile e già congestionata mentre rimangono a un unico binario le linee ferrate che andrebbero invece potenziate. I contestati parcheggi previsti nei parchi pubblici non risolvono il problema del traffico ma in pratica lo accrescono con le code di automobili in cerca di un posto libero; per questo all’estero l’approccio alla congestione urbana è radicalmente diverso e tende al miglioramento del trasporto pubblico con metropolitane e tramvie di nuova generazione. Nelle città europee più avanzate da vent’anni si è fatta la scelta opposta, quella di costruire grandi parcheggi ai bordi collegati al centro con “navette” pubbliche.

La città è nata per far sentire l’appartenenza ad un luogo definito, a un limite.

Ciò che manca al Piano è l’essenziale: il senso del limite, uno stop all’espansione spontanea spinta dalla agguerrita speculazione che guarda soprattutto ai terreni contigui alle strade di scorrimento e alle tangenziali come possibili luoghi di cementificazione.

L’idea che si sta realizzando in tutte le società occidentali della “città compatta”, densificata, racchiusa in un confine ideale al di la del quale non si può costruire e si utilizzano invece la aree dismesse o inutilizzate, la ricostruzione di edifici fatiscenti e il restauro di quelli storici per il suo sviluppo, è totalmente estranea alla cultura dei nostri politici.

Solo con la “città compatta” le “reti” vengono contenute in termini ragionevoli e i servizi possono essere ubicati anche nelle periferie; i percorsi si abbreviano, il traffico diminuisce e la città può essere più facilmente dotata di mezzi di trasporto collettivo e fruire delle risorse naturali delle aree verdi contigue; la città diventa fruibile da parte dei suoi abitanti.

Tempo fa, all’università di Mendrisio, un urbanista famoso ha espresso tale concetto in maniera

semplice ed efficace: si prende un compasso e si disegna un cerchio ideale intorno al centro storico, appena corretto dai rilievi orografici del luogo. Al di la di quella linea non si costruisce nulla, non le casette a schiera e le “villettopoli”; solo campagna e boschi.

Mancando questo obiettivo primario di contenimento dell’espansione urbana il Piano di Governo del Territorio è soltanto un modesto tentativo di razionalizzazione del mercato edilizio, incapace di prospettare la forma, la dimensione e la identità della città futura.

Il Piano di Governo del Territorio non è soltanto uno strumento tecnico ma un progetto che presuppone tuttavia una cultura urbanistica che purtroppo fa difetto sia negli amministratori che nei cittadini.

Nella recente esortazione “Evangelii gaudium” Papa Francesco ha fatto una interessante osservazione: “La rivelazione ci dice che la pienezza dell’umanità si realizza in una città; nelle grandi città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita. Quello che potrebbe essere un prezioso spazio di incontro e di solidarietà, spesso si trasforma nel luogo della fuga e della sfiducia reciproca. Le case e i quartieri si costruiscono più per isolare e proteggere che per collegare e integrare”.

I problemi della città vanno affrontati nella loro globalità, con una visione non solo delle cose ma anche dalle loro reciproche relazioni, nonché da loro senso e dal finalismo che li accomuna.

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