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Politica

L’EUROPA TRA MITO E REALTÀ

LIVIO GHIRINGHELLI - 17/01/2014

Si è celebrato nel 2013 il ventesimo anniversario del Trattato di Maastricht (1993), che fissò i criteri di cittadinanza per i Paesi dell’Unione Europea. Fecero seguito i Trattati di Amsterdam (1999) e di Lisbona (2009), intesi a definire il senso dell’appartenenza a questo organismo plurinazionale nel segno della comprensione reciproca e della ricchezza, che la diversità culturale e linguistica può dare. L’identità non può che fondarsi su valori, storia, cultura, messe in interrelazione, salve facendo le tradizioni. Lo scopo era anche di semplificare i processi decisionali, rinforzando la legittimità democratica delle decisioni ben oltre il limite dei negoziati diplomatici tra governi.

Dal 22 al 25 maggio prossimi ci attendono le elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, mentre si deve prendere nota che il 1 ° luglio scorso si è aggiunta tra i Paesi aderenti la Croazia (ventottesima) e ultimamente la Lettonia e che di fronte all’allargarsi dell’euroscetticismo c’è tanta voglia di fare parte dell’Unione per chi ancora vi aspira a soluzione dei propri problemi. Oltre tutto per l’Italia si profila l’occasione data dal secondo semestre del 2014 per l’assunzione di un valido posto di regia (a dire il vero con possibilità non eclatanti di incidere su una crisi ormai pluriennale come quella che affligge il continente come il resto del mondo).

I fattori che sono sempre in gioco sono popolo, territorio, sovranità da concepire entro una dimensione che è al contempo giuridica, politica, sociale. Ancora l’UE non dispone della pienezza di sovranità che appartiene ai singoli Stati e l’Europa dei popoli nel pluralismo accusa parecchi ritardi nel suo sviluppo e attuazione. Per essere cittadino dell’Unione bisogna che chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato nazionale (Trattato di Maastricht); la cittadinanza dell’Unione è poi solo un complemento di quella nazionale (Trattato di Amsterdam). Specifici diritti ora concernono la libertà di circolazione interna, così come il soggiorno e il lavoro, il diritto di ricorrere alle istituzioni europee in caso di contenzioso (Parlamento, Corte di Giustizia). Tra i diritti sociali ed economici rientrano salute, sicurezza, tutela dei consumatori (materie ancora da rielaborare). La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione è stata definita nel Consiglio europeo di Nizza (2000). Nel 1979 si era introdotta la possibilità di eleggere il Parlamento europeo a suffragio universale (è da citare il fatto che in Italia i cittadini dell’UE possono partecipare alle elezioni amministrative sia come elettori che come candidati). Comunque sempre determinante è ancora il Consiglio.

 Per ora abbiamo una bandiera europea, un inno europeo e sui passaporti la dizione: Unione Europea. Ma ben faticosa è la via verso una governance sovrastatale in un contesto globale, che è contrassegnato dalla moltiplicazione e frammentazione dei livelli d’esercizio dell’autorità, in cui i singoli Stati si abbarbicano al loro monopolio.

Le differenze vanno valorizzate in chiave non conflittuale. In momenti di particolari difficoltà, come quelli in cui stiamo vivendo, l’UE è un comodo paravento su cui scaricare la responsabilità delle scelte più difficili (ma quante volte gli Stati ricorrono al diritto di veto?). E i doveri, a differenza dei diritti, risultano piuttosto vaghi e indeterminati. Si constata che l’affluenza alle elezioni europee risulta sempre inferiore a quella registrata nelle consultazioni nazionali. Perché l’insegnamento della storia nella scuola non è svolto in una prospettiva veramente europea? Perché non si trascende il limite della solidità dei bilanci pubblici per una efficace costruzione della fiducia tra i partner? (superando la retorica europeista).

Invece è sempre più larga l’affermazione dei partiti / movimenti euroscettici (localisti, nazionalisti, populisti), movimenti che caratterizzano anche Francia e Gran Bretagna. Da noi fa da sfondo e promozione lo stato di asfissia economica, che ancora grava su politiche di necessità austere di fronte al buco pauroso di bilancio. Ci caratterizzano la debolezza competitiva delle imprese, il disordine politico, l’insufficienza amministrativa nel settore pubblico e si accusa l’euro di impoverirci, mentre al contrario l’uscita dalla sua sfera ci esporrebbe allo scacco di continue crisi speculative.

La rivolta è amplificata irresponsabilmente dai media. Preoccupano forme di divorzio e disamore, ma nulla si può costruire sulle sabbie mobili del debito. E si sprecano in progetti farlocchi fondi strutturali che andrebbero destinati a sostegno del mercato del lavoro da riformare. Intanto accontentiamoci dello scudo che la Banca Centrale Europea costituisce contro le perverse evoluzioni dei mercati e dell’accordo sull’unione bancaria, risoluzione al vaglio del Parlamento europeo (di qui passa l’integrazione europea). La Germania osta a una mutualizzazione del debito, a meccanismi pubblici di risoluzione di crisi bancarie o sovrane che portino a usufruire di risorse europee comuni. Vanno sempre trascese le soluzioni minimaliste per politica estera, difesa, unione bancaria. Non si deve considerare lontano quel Consiglio europeo, che è tra l’altro intermittente.

E comunque è certo che giova anche a noi nel quadro dell’Unione Europea rilanciarci nel mantenimento (almeno) della sua posizione globale nel mondo, liberandoci così da una stagnazione che grava da troppo tempo e distinguendoci per produttività e innovazione.

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