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Sport

QUEL FAVOLOSO SESSANTAQUATTRO

ETTORE PAGANI - 17/01/2014

Anni buoni, così e così o grami. Nello sport come nella vita, del resto.

Non vi sono – e non potrebbero esservi – eccezioni locali. Se così è, fermiamoci ai più buoni. Quelli degli anni Sessanta per quanto concerne lo sport varesino, solo riferendoli a calcio e basket, felici come non mai.

Anno d’oro, per esempio, il 1964, per il Varese calcio con il suo primo approdo ad una serie A da sempre mai neppure apparsa come miraggio alle speranze dei tifosi locali.

Anno d’oro per il basket che conquista il secondo scudetto tricolore dopo quello del campionato 1961/62 già messo agli archivi in una bacheca che dovrà impreziosirsi sempre di più.

Nel calcio prima d’allora le vicende avevano alloggiato in sostanziali modestie per essere, poi, interrotte dall’arrivo del duo Busini (direttore tecnico) – Puricelli (allenatore) condottieri di una scalata dalla C alla A mai ipotizzata.

Si erano – in precedenza – percorsi tracciati modesti, arrivando anche, in negativo, ad una prima divisione con in panchina Piero Magni che, da non molto, aveva abbandonato il titolo di giocatore più eclettico del campionato italiano (se non dell’intero universo calcistico) vestendo, nella Juve, tutte la maglie, da quella del portiere a quella dell’ala sinistra.

Si erano affrontate, in quel tempo, trasferte chilometriche e massacranti (cui, ovviamente, anche il cronista si doveva sottoporre) arrivando magari sino a … Malnate per assistere ad un significativo successo biancorosso (2-0) determinante – nell’annata – per il salto di categoria. Ancora più improbo il viaggio a Cislago scendendo sul campo del Cistellum sempre in “desolante” impegno.

Poi un inizio di rinascita in cui – si diceva – ebbero molto peso, tecnicamente, Busini e Puricelli, e, societariamente, l’apparire, sugli sfondi, della non lieve figura di Giovanni Borghi con Cesare Casati in prima fila a rappresentarlo e con una squadra fortunatissima più come validità di insieme e di regia, che come individualità.

A proposito di queste ultime viene alla mente un particolare che, con presuntuoso vanto, chi scrive non disdegna di ricordare.

All’epoca la squadra, pur dotata di buon gioco, mancava di un realizzatore d’area: quel tale, insomma, che bene o male mettesse la palla in rete. Tra i nomi del mercato c’era quello di Vincenzo Traspedini che alla Juve non si era trovato gran che a proprio agio. Cominciai, allora, a battere, ripetutamente, il chiodo sulla Gazzetta dello Sport facendo notare che poteva essere l’acquisto giusto per il Varese: un rifinitore goleador.

L’acquisto fu perfezionato e, nel primo allenamento del giocatore al Franco Ossola, presenziai, come quotidianamente, ai bordi del campo. Con me vi era anche Guido Borghi alla cui attenzione non dovevano, evidentemente, essere sfuggiti i miei consigli in rosa visto che, ad un certo momento, con un pizzico di sarcasmo, si rivolse al sottoscritto con un preciso “adesso vedremo cosa farà il suo Traspedini”. Con replica immediata precisa: che se fosse stato “mio”, avrei preteso una cifra superiore a quella che il Varese aveva sborsato per averlo concludendo con uno “staremo a vedere” fatto di certezze ma, soprattutto, di speranze. Andò bene perché la presenza di Traspedini fu determinante, in fase conclusiva, sui risultati della squadra.

Varese Calcio, dunque, a far salire al massimo la passione degli sportivi.

Giusto in tempo per far da eco a quella di cui risuonava il vicino Palazzotto dello sport ove l’Ignis basket si era incamminata verso la conquista dello scudetto bis.

Dalla formazione (Maggetti, Gavagnin, Bufalini, Vatteroni, Cescutti, Gatti, Villetti, Bulgheroni, Bronzi, Ravalico) allenata da Vittorio Tracuzzi mancava quel Vianello, che aveva contribuito non poco alla conquista del precedente titolo di Campione d’Italia assieme al suo concittadino Enrico Garbosi.

Due scudetti. Saranno solo i primi gradini di una serie inimmaginabile di trionfi.

Garbosi e Tracuzzi: due scuole completamente diverse ma entrambe vittoriose. Basket atletico quello del primo, fatto di velocità e gran corse; di schemi studiati quello del secondo.

Diceva Giovanni Gavagnin: “Appena conobbi Garbosi a Varese capii che senza correre non sarebbe stato neppure il caso di pensare ad un posto in squadra.

Ricordava in epoca successiva Sergio Marelli di Tracuzzi: “Niente! Non diceva proprio niente”. Lui scrollava la testa nel vedere l’allenatore in ginocchio a posizionare le monetine sul parquet per spiegare uno schema. E decise di partire, in totale dissenso, per l’esilio canturino.

Nessuno seppe mai se poi si fosse ravveduto.

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