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Attualità

“NUNCA MÀS”

CARLO BOTTI - 31/01/2014

L’aula dell’università dell’Insubria è quasi vuota. Al massimo una decina di persone o poco più: il sottoscritto, un paio di studenti che non pensano agli esami imminenti, alcuni professori dell’ateneo e qualche pensionato interessato al tema. Ma per Carlos Cherniak, il relatore, non fa nessuna differenza avere di fronte a sé una platea di trecento o di dieci. L’argomento di cui parla – la tragedia dei desaparecidos in Argentina durante la dittatura militare tra il 1976 e l’83 – gli sta talmente a cuore ed è tanto importante che non conta avere un pubblico folto, ma solo un “pubblico coinvolto”. E così la conferenza diviene emozionante, sentita.

Cherniak è ministro plenipotenziario, si occupa di politiche per i diritti umani all’ambasciata Argentina in Italia. Da due anni e mezzo gira nelle scuole e nelle università italiane per parlare di questa immensa tragedia che nel suo Paese portò alla “sparizione” trentamila persone: oppositori politici, giovani, letterati. Da subito spiega il suo intento: “Io non sono qui per farvi piangere ma per parlare di memoria, per fare in modo che certe tragedie non ricapitino più. Siamo consapevoli che, talvolta, la storia purtroppo si ripete e che la democrazia non si perde da un giorno all’altro, ma a poco a poco, senza che ce ne accorgiamo”.

Cherniak illustra in breve il contesto storico in cui si formò la dittatura militare: dice dell’appoggio degli Stati Uniti e della CIA, che in quegli anni controllavano e influenzavano l’intera America Latina nel timore che sorgesse una nuova Cuba nelle loro vicinanze; racconta di come, passo dopo passo e attraverso uno screditamento continuo e sottile degli avversari politici, si giunse al colpo di stato. Definisce la dittatura argentina una dittatura civico-miliare, spiegando che anche imprenditori di grandi aziende se ne servirono e la sostennero: i rappresentanti dei sindacati furono eliminati e tanti si arricchirono ancora di più.

Il diplomatico argentino racconta come sia stata operata l’“eliminazione sistematica” di tutte le persone che erano contrarie o che semplicemente dimostravano una leggera avversità al sistema: anche giovani di soli diciassette anni che stampavano ciclostilati di protesta.

Poi uno dei punti salienti della dittatura – un argomento importante e tragico per Carlos Cherniak – e che forse alcuni ancora oggi non conoscono: i figli dei desaparecidos nati durante la prigionia, strappati alle loro madri e dati in adozione ad altri famiglie che appoggiavano il regime. Si parla di almeno cinquecento bambini, che ormai sono adulti tra i trenta e i trentotto anni. Fino a oggi solo un centinaio di loro ha recuperato l’identità grazie al grande lavoro delle nonne di Plaza de Mayo, guidate da Estela Carlotto.

Sul caso dei “bambini rubati” è stato girato un film, molto intenso, che è stato proiettato a conclusione della conferenza: “Verdades Verdaderas. La vida de Estela”. Il film è stato diretto da un giovane regista argentino, Nicolàs Gil Lavedra, con attori tutti di primo livello.

Alcuni dei figli dei desaparecidos, spiega il ministro Cherniak, sono stati ritrovati in Paesi stranieri. Si pensa che ve ne siano anche in in Italia, che per antica tradizione è un Paese molto legato all’Argentina, e ha invitato apertamente a parlarne, a diffondere queste notizie perché chiunque abbia dei dubbi sulle proprie origini si possa recare all’ambasciata argentina per accertamenti e sottoporsi anche a esami del Dna.

Accanto al relatore sono il professor Fabio Minazzi, presidente del corso di laurea in scienze della comunicazione, che ha promosso l’incontro, e il dottor Sabatino Annechiarico, giornalista argentino residente in Italia da più di vent’anni.
Annechiarico racconta come la dittatura civico-militare abbia avuto ragione di esistere anche grazie a una forte disinformazione da parte dei media, molti dei quali, purtroppo, hanno di fatto sostenuto il regime. Nello specifico ricorda il caso del giornalista italiano del Corriere della Sera Gian Giacomo Foà, cui fu talvolta impedito di pubblicare articoli di denuncia nei confronti della giunta militare, e il caso del console italiano a Buenos Aires Enrico Calamai, una sorta di Schindler in Sudamerica, del tutto abbandonato a sé stesso nell’opera di aiuto agli italo-argentini perseguitati: questi fatti, per altro, sono stati molto bene spiegati nel suo libro “Niente asilo politico”.

Il Corriere della Sera – è stato detto ancora – a quei tempi era sotto l’influenza della loggia massonica P2 guidata da Licio Gelli, che s’era impadronita delle strutture dirigenziali del giornale, e ciò forse in cambio di finanziamenti per la ricapitalizzazione del gruppo Rizzoli. Alla P2 erano iscritti i due generali argentini Emilio Massera e Roberto Eduardo Viola. Licio Gelli, che ricevette anche un passaporto diplomatico argentino, pensava probabilmente che il modo migliore per la gestione di quegli affari fosse anche quello di operare perché l’Italia fosse il meno possibile informata delle atrocità che si stavano perpetrando.

Il pomeriggio si chiude con le parole del ministro scandite da Carlo Cherniak: “Ogni società deve decidere che cosa fare con le proprie tragedie: è una scelta etica e politica. Qualche nazione ha deciso di nasconderle sotto il tappeto e di dare un taglio al passato, di pensare al futuro dimenticando ciò che è accaduto. L’Argentina ha fatto una scelta diversa: ha deciso di intraprendere un percorso di ricerca della verità piena. Una decisione molto coraggiosa e anche rischiosa: conoscere la verità di una tragedia, le sue caratteristiche e conseguenze, porta alla necessità di giustizia. Solo dopo una giustizia piena si può cominciare a parlare di memoria.”

Chi scrive, un anno e mezzo fa, ha lavorato in una scuola pubblica di Rosario, grande citta argentina a quattro ore di auto dalla capitale Buenos Aires. L’edificio che adesso ospita la scuola durante la dittatura militare era un centro di detenzione. Le aule, in una visione angosciante, sono state lasciate con le inferriate alle finestre perché anche i ragazzi di oggi capissero e si domandessero che cosa fosse successo nel loro Paese. Su un muro della scuola campeggiava una scritta: “Nunca màs”. Mai più.

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