Widgetized Section

Go to Admin » Appearance » Widgets » and move Gabfire Widget: Social into that MastheadOverlay zone

Attualità

MORIRE DI AMBIENTALISMO

LIVIO GHIRINGHELLI - 06/02/2014

Dati allarmanti emergono dal rapporto 2013 dell’IPCC (Intergovernmental panel on climate change-Comitato intergovernativo per il cambiamento climatico). L’istituto è nato nel 1988 per volere dell’Organizzazione meteorologica mondiale e dal Programma dell’Onu per l’ambiente. Non svolge in proprio attività di ricerca, ma fonda le sue valutazioni sulla letteratura tecnico-scientifica pubblicata e sottoposta a revisione critica. Unico italiano a fare parte del Bureau Carlo Carraro, docente di economia ambientale all’università di Venezia.

Quattro sono i gruppi di lavoro: il primo con sede a Berna valuta gli aspetti fisico – scientifici del sistema climatico; il secondo, con sede in California, si occupa della vulnerabilità dei sistemi naturali e socioeconomici in riferimento ai cambiamenti climatici; al terzo, con sede a Postdam in Germania, è affidato il compito di individuare opzioni per mitigare i cambiamenti; il quarto infine, con sede in Giappone, sovrintende al Programma degli inventari nazionali dei gas serra.

L’attività dell’Istituto è finanziata con i contributi volontari degli Stati membri. Rapporti periodici sono usciti nel 1990, nel 1995, nel 2001, nel 2007 e nel 2013 in settembre. Nel 2007 l’IPCC ha vinto il Premio Nobel per la pace.

L’affinamento degli strumenti di osservazione, il miglioramento delle analisi, i modelli più avanzati hanno via via offerto una descrizione sempre più convincente dei fenomeni. Risulta estremamente probabile che l’influenza umana sul clima sia la causa principale dell’incremento osservato nella temperatura media della superficie terrestre dalla metà del ventesimo secolo. Gli ultimi tre decenni sono stati i più caldi dal 1850 (data di inizio delle misure termometriche a livello globale), con peggioramenti di rilievo nell’ultimo. Rispetto all’epoca preindustriale la concentrazione globale di anidride carbonica emessa particolarmente grazie all’uso dei combustibili fossili e alla deforestazione è cresciuta all’in circa del 40% (nel 2011 del 54% rispetto ai livelli del 1990).

L’effetto antropogenico sul clima ha provocato il riscaldamento degli oceani, l’innalzamento del livello medio globale marino (aumento di cm 19 nel periodo 1901-2010), fusione di ghiacci e riduzione della copertura nevosa. Grande la riduzione di massa delle calotte glaciali in Groenlandia e Antartide.

Nell’ipotesi più favorevole l’aumento della temperatura globale a fine secolo di un grado vedrebbe il livello medio del mare salire di 24 cm; la previsione più drammatica sarebbe di 3,7 gradi di aumento, con i mari che salgono di 62 cm.

La volontà di attuare la cura dipende da una rivoluzione culturale prima ancora che politica: bisogna uscire dal paradigma economico predatorio delle risorse naturali. All’incremento della conoscenza scientifica corrisponde purtroppo l’inadeguatezza delle risposte sinora messe in campo. All’osservazione che in un momento di grave crisi finanziaria come quello attuale gli investimenti sull’ambiente comporterebbero un sacrificio insostenibile si può opporre che le politiche di mitigazione produrrebbero notevoli benefici anche in termini occupazionali; si pensi poi alla necessità assoluta di interventi di prevenzione idrogeologica. Vanno comunque adottati nuovi stili di vita, di mobilità, di consumo quali la situazione esige.

Dal 2000 al 2012 sono stati ad esempio sacrificati 1,5 milioni di chilometri quadrati di foreste (in Europa la situazione risulta sostanzialmente invariata); le peggiori perdite si sono accumulate in Alaska, Canada, Siberia Orientale; non va meglio nell’Amazzonia meridionale, nell’Australia e nelle foreste tropicali di Sumatra e Borneo. Sono tutti polmoni che garantiscono, se rispettati, condizioni di vivibilità.

Il dibattito in Europa pone il problema di aggiornare la politica del cosiddetto 20-20-20 (quota riduzione emissioni Co2 rispetto al 1990; quota concernente le opportunità offerte dalle energie rinnovabili; quota dipendente dalle risoluzioni per una maggiore efficienza degli impianti).

In Commissione si scontrano gli interessi relativi alla competitività delle imprese con le prospettive di bilancio economico e tecnologico da economia verde. L’italiano Taviani è preoccupato del fatto che le aziende possano essere indotte a delocalizzare (tremano specialmente le imprese energivore). Queste le posizioni dei singoli Stati: la Gran Bretagna non accetta obblighi sulle rinnovabili; la Germania punta invece su queste; incerta è la posizione dell’Italia con il ministro dell’ambiente Orlando che non è dello stesso parere di Taviani. Qualcuno è sempre preoccupato di dover morire di ambientalismo.

 

Facebooktwittergoogle_plusredditpinterestlinkedinmail

You must be logged in to post a comment Login