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Attualità

GRANDEZZA DEL PAESAGGIO

DINO AZZALIN - 13/06/2014

Ippocastani, tigli, pini, noci, addirittura due palme, qualche cipresso e poi erbe e colori, nella più straordinaria espressione di una primavera prealpina. Prima di arrivare all’arco delle Cappelle, guardo il lago, ci sono luoghi della memoria che appartengono solo a paesaggi interiori e ci sono alte siepi che separano l’esterno fatto di strade, alti vicoli, stradine, giardini, dall’interno, come i labirinti della nostra vita in cui ci si perde per anni e poi all’improvviso, paf… Più nulla.

Come un tempo le dimore estive di milanesi facoltosi, e oggi invece le seconde, le terze case quasi mai abitate, qualche “Affittasi” e tanti “Vendesi”; e qualche residente che ama la quiete e l’aria frizzantina e che, interrogato sull’erigendo parcheggio, risponde: “Sono tutti matti quelli lì”; oppure “Sì, ci vorrebbe ma non qui”. E sopra, in fondo alla strada, il viale dove s’inizia l’acciottolato della Prima Cappella con il dipinto di Guttuso (ma c’è ancora?) e la via sacra dove sono passati papi e potenti, genti d’ogni dove per quattro secoli, a rendere preghiere alla Madonna o semplicemente a camminare tra le stazioni sacre volute da padre Giovan Battista Aguggiari nel lontano 1604. Costate un milione di lire imperiali, una cifra enorme (apprendo dalle note di Ambrogina Zanzi), se si pensa che nel 1612 le entrate della città di Milano (dazi sulla macina, sul vino, sulla carne, sui polli; tasse sulle case e sulle botteghe; fitti dei terreni demaniali) ammontavano a poco meno di 1.200.000 lire, ancora oggi le cappelle sono il vanto della città.

E tutto per voto non a un Dio qualsiasi, né all’amico architetto Bernascone il quale sposò subito il progetto, ma al suo infaticabile lavoro e spinto da una fede incrollabile che non riuscì però a salvarlo dalla peste che pochi anni dopo nella chiesa del Lazzaretto, se lo prese legato al crocifisso per paura che Gesù lo abbandonasse nell’ora del trapasso.

Ebbene oggi in un giorno assolato e splendido di giugno festa della Repubblica (penso alla povera piazza: sic docet!) mi sono immerso in una liturgia di siepi alte di lauro, carpino, bosso e ligustro, che ornano il cammino che costeggia le ville che portano al Sacro Monte, contemplo il patrimonio dell’Unesco, meta del passeggio di varesini e pellegrini.

Nell’avviare l’opera, padre Aguggiari riprese un’idea di alberi maestosi, secolari che facessero ombra ai viandanti e in un pomeriggio d’autunno del 1603, facendo ritorno a Varese dal Monastero delle romite Ambrosiane, di cui era il confessore, confidò al suo compagno di viaggio Giuseppe Bernascone l’importanza del verde da inserire in cotanto paesaggio specchiante sui laghi. Qualcuno è rimasto ancora, altri sono morti, i più hanno subito il destino o la scure degli uomini. Così loro due, primi pellegrini di quella via, segnarono i luoghi dove sarebbero state costruite le cappelle con croci di legno e con apposite cassette per raccogliere le offerte dei pellegrini, costellando di alberi maestosi l’intero sacro itinerario. Oggi salendo osservavo lo spettacolo dove fanno capolino case belle, case vecchie in vendita, tetti d’epoca, ville che hanno visto vite, esistenze ormai senza più tempo né gloria, sì, le cose sono cambiate, niente somiglia a quel che è stato.

Ma da qui sembra che un miracolo insperato abbia salvato buona parte del territorio, e Varese, un tempo ridente città dei giardini sembra ancora rivivere e invece è il verde che la mitezza del clima rende sipario di un teatro sulle brutture che in ogni città avvengono e mimetizza gli scempi che si sono perpetrati lungo gli anni da parte di un uomo vorace ed effimero che vuole affermare la supremazia sulla natura, quasi a vendicarsi della sua immortalità.

Gli alberi non sanno difendersi, rispondono semplicemente con lacrime di linfa, profumi, semi, clorofilla, gli odori di robinie e castani, il profumo inebriante delle acacie, poi dei maestosi glicini, e ora i tappeti di gelsomini alle pareti di sassi storici sono la loro allegria, il nostro piacere. Infatti ancora una volta è proprio la natura a seppellire le aree dismesse con nuove radici, sterpi, erbe selvatiche, arbusti, nuovi alberi, quasi a nascondere il peggio di quel che rimane di calcinacci, mattoni, cemento cariato, eppure è ancora il predatore rapace, a colpire per astrusi interessi contronatura, a rompere in modo barbaro questo equilibrio, distruggendo la poesia e la natura del paesaggio prealpino uno dei più belli del mondo. E mi vengono in mente alcuni versi di Giuseppe Ungaretti: “Come dolce doveva andare il mondo prima dell’uomo/, l’uomo ne cavò beffe di demoni/ la sua lussuria disse cielo/ la sua distruzione decretò creatrice / suppose immortale il momento…”.

Ma che differenza c’è tra padre Giovan Battista Aguggiari, il Bernascone, il Poeta e questi nuovi “ospiti”? Chi dice di amare la Natura e poi non la difende o peggio ancora lo fa solo dentro al suo giardino è ancora più intollerabile, perché nessuno può dire di amare la città se poi non la difende. Merita perciò che noi si sia ancor più uniti perché sia riconosciuto il valore del paesaggio e il rispetto della Natura, e della sua Poesia, così come l’ha voluta il Creatore, perché al momento – sia chiaro – non se n’è ancora vista nell’Universo, un’altra uguale.

 

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