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Società

L’INGRESSO NELL’ETÀ ADULTA

MARGHERITA GIROMINI - 20/06/2014

Un’altra pagina sulla struttura dell’esame di maturità dei diciotto / diciannovenni italiani risulterebbe proprio inutile: modifiche, aggiunte, punteggi, percentuali di maturati e così via, aspetti tecnici dell’argomento sui quali gli esperti ai diversi livelli si sono soffermati a lungo, spiegandoci quasi tutto, con motivazioni e ricostruzioni approfondite.

Vorrei proporre invece qualche riflessione di ordine pedagogico. Sì, perché la pedagogia non riguarda più solo i bambini: con il prolungarsi dei periodi della vita in cui si apprende, oggi la pedagogia si occupa anche di educazione permanente, termine che nel mondo globalizzato viene tradotto con lifelong learning.

Una domanda pedagogica: ma con l’esame di maturità si affronta una vera prova, uno di quei momenti che la psicologia e l’antropologia chiamano riti di passaggio? Vale a dire il passaggio dall’adolescenza all’età giovanile, che coincide con l’ingresso agli studi universitari per taluni, alla ricerca del lavoro per altri, ad un lungo intermezzo di stand by per altri ancora (troppi).

A dire il vero, nella società contemporanea sono rimasti ben pochi riti di passaggio. Dall’infanzia all’adolescenza, ad esempio, esiste ancora un passaggio evidente? Una volta Prima Comunione e Cresima costituivano una sorta di segnale di crescita; oggi, collocate temporalmente negli ultimi anni della scuola primaria, non sembrano segnare particolari scadenze fisiologiche o psicologiche. Quante e quali siano, oggi, le fasi della vita, risulta difficile da affermare, a fronte del prolungamento della prima gioventù fino ai trent’anni; e con l’aggiunta, all’ultima fase del’esistenza, di una quarta età che distingue gli anziani da vecchi e vecchissimi… Insomma, ci accorgiamo che le solide categorie del passato sulla nostra immagine della vita traballano. Bisognerebbe impegnarsi a riscrivere le età della vita, dopo aver messo d’accordo molteplici soggetti, dai sociologi agli scrittori, dai genetisti ai medici.

Dunque la maturità. Guardiamo a questa del 2014, appena iniziata, al netto delle critiche negative: che non serve alla scuola che già possiede sufficienti elementi di valutazione, che non è utile nemmeno al giovane studente che sa fare da sé un rapido calcolo delle probabilità di riuscita (solo lo 0,9 degli ammessi non supera l’esame).

Resta valido, sul piano pedagogico, l’esame di maturità come prova che espone il giovane al giudizio di docenti diversi da quelli che lo hanno seguito per i cinque anni del corso superiore. Ogni esame costituisce un passaggio, un cambiamento di passo, uno spostamento da una condizione ad un’altra, da uno status socio culturale ad uno nuovo. Chi affronta e supera un esame, è “abilitato”, in modo riconosciuto socialmente, ad entrare a far parte di qualcos’altro: un grado superiore di istruzione, o il mondo del lavoro, sia pure precario e sempre che ci sia la possibilità di trovarne uno. Gli viene richiesto un forte impegno per riuscire al meglio, per evidenziare le proprie abilità, per dimostrare a se stesso e al mondo di concludere positivamente la fase degli studi superiori con il relativo bagaglio di relazioni, affetti, situazioni conosciute.

Interessante è la definizione che Umberto Galimberti ci offre dà del concetto di “maturità”: che non vuol dire sag­gezza, ponderazione, equilibrio o invecchiamento pre­coce, quanto invece capacità di superare le prove per reperire una propria identità, così come capacità di reggere le sconfitte. In questa prospettiva, e forse solo in questa, l’esame di maturità rappresenta un rendiconto finale, la somma di tutte le somme; la conclusione di un lungo ciclo scolastico, durato tredici anni, nel sistema di istruzione nazionale che include un solo momento valutativo, in terza media, ad opera di una commissione interna (se escludiamo le contestate prove Invalsi il cui valore è prevalentemente di tipo comparativo).

L’esame di maturità sposta in secondo piano gli esiti relativi a ciascuno studente, in quanto i veri giochi sono fatti in precedenza. Resta lo sforzo individuale per ottenere una buona valutazione che comunque non cambierà di molto la direzione di un futuro già preordinato.

Se riduciamo il valore oggettivo della maturità, e sottolineiamo invece il suo effetto sulla maturazione individuale, potremmo vedere come sia eccessiva l’enfasi attribuita nel nostro paese all’esame in questione. Eccessiva la profusione di pillole di saggezza psicologica e medica nei giorni che precedono la fatidica data dell’inizio maturità: che cosa mangiare, come vestirsi, come affrontare le (solo eventuali, speriamo) crisi di panico, che fare la notte prima degli esami (oltre a vedere /rivedere l’omonimo film)? Eccessive le lunghe interviste agli esperti delle più svariate discipline, ai dirigenti scolastici, ai sindacalisti del settore, alle madri e ai padri preda di crisi d’ansia. Con il seguito di trasmissioni radiofoniche e televisive, quesiti alle rubriche dei settimanali; e il mare di consigli nei blog di mamme, studenti, zie e parenti vari.

Forse sarebbe saggio normalizzare l’evento maturità, considerarlo per quello che davvero rappresenta: un passaggio che lo studente può affrontare da solo, avendo, appunto, la non tenerissima età di diciannove anni. Accertato che gli esami non finiscono mai (è vero!), lasciamo almeno che comincino; permettiamo ai nostri giovani di gestirsi da sé il proprio primo esame, mettendosi alla prova senza particolari supporti. L’esame di maturità non è un evento nazionale, bensì un possibile spazio di crescita personale.

Ma questo è solo il parere di una persona che punta, in campo educativo, sulla responsabilità personale, sulla capacità di prendere in mano la propria vita, ritenendo diciannove anni un’età adeguata per farlo.

 

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