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Spettacoli

TRA ROCK E LENTO

MANIGLIO BOTTI - 20/06/2014

A marcare la differenza, qualche tempo fa in una sua trasmissione televisiva, ci pensò Adriano Celentano con un tormentone divenuto molto noto: rock e lento. Quasi fossero due concezioni filosofiche della vita, dove l’una – il rock – appare giusta, intelligente, dinamica, progressista e l’altra – il lento – piuttosto retrograda, non adeguata, in definitiva negativa.

La puntualizzazione, a ben vedere, è un po’ pretestuosa. Per diversi motivi, il primo lo si può riferire allo stile “musicale” delle due esecuzioni. Perché se è vero che l’Adriano da noi, in anni ormai lontanissimi, fu un bardo del rock and roll così come ci arrivava dagli Stati Uniti (Rock Around the Clock, 1952), dall’altra non disdegnò di presentare ai suoi fan “lenti” celebri.

Pescando a caso nella sua sterminata discografia di successo, troviamo molti brani che sono lenti o, tutt’al più, rock-pop all’italiana: Nata per me (1961), Sei rimasta sola (1962), Una carezza in un pugno (1968), Viola (1970), Soli (1979); e non dimentichiamo Il ragazzo della via Gluck (1966), la ballata un poco svelta – in alcune parti – ma che in un certo senso rappresenta la biografia, musicale e no, dell’opera omnia celentanesca.

Ma il lento, i lenti non sono soltanto questo. Chiunque sia stato ragazzo negli anni Cinquanta (alla fine) e negli anni Sessanta sa bene che il lento era lo stile preferito – dopo i tempi guerreggianti della balera e del liscio – nelle festicciole casalinghe, quando proprio “il lento”, appoggiato sul grammofono da qualche volenteroso, dava l’unica possibilità di contattare la ragazza amata o desiderata. Nel ricordo, come dei flash, appaiono immagini stereotipate: tutti i ragazzi seduti da una parte, le fanciulle in fiore dall’altra in attesa. Ad aspettare, magari, il lento giusto. Era davvero il simbolo di un modo di essere retrogadi e, per dirla con Celentano, sbagliati?

Vengono in mente delle canzoni che, anche in conseguenza della loro lunghezza oltre i canonici due minuti e mezzo, tre del disco singolo, venivano considerate addirittura “lentoni”, e perciò predilette nelle feste di casa: per esempio Homburg e A Whiter Shade of Pale, dei Procol Harum – è di poco passata la metà degli anni Sessanta –, brani in Italia portati al successo anche dai Camaleonti. E poi c’erano cantanti specialisti del lento, e dunque osannati e privilegiati negli incontri suddetti. È il caso di Salvatore Adamo o soltanto Adamo (Adamò, alla francese), trasferitosi con la famiglia da Comiso in Belgio all’età di cinque anni. La notte (1965), probabilmente il suo successo più famoso, è una specie di “inno” dei lenti.

Troviamo un “ragazzo degli anni Sessanta” e chiediamogli se non ha ballato, intimidendosi, magari incespicando mentre cercava di stringere un po’ di più la sua dama, ascoltandola Nottedi Adamo.

Salvatore Adamo – discendente dell’emigrante ancora naìf e popolaresco alla Rocco Granata (Marina, 1959) – si inseriva in una scia molto più romantica e edulcorata, in parte già aperta dai nostri Gianni Morandi e Bobby Solo. Non era un grande, forse, ma sapeva dire la sua. L’aspetto romantico e old style delle sue canzoni proruppe nello stesso anno 1965 della Notte, quando incise Dolce Paola, un altro “lentone”, canzone che aveva dedicato a Paola Ruffo di Calabria, futura regina del Belgio, della quale i giornali di gossip, molto letti anche allora, dicevano fosse segretamente innamorato.

Ogni tanto capita di rincontrare Adamo in qualche trasmissione tv rievocativa: il personaggio va ormai ben oltre la settantina, ha mantenuto un’improbabile e ancora scura chioma di capelli, ma tutto gli si perdona quando comincia a cantarela Notteo Affido una lacrima al vento. A un re del lento si può concedere la vittoria contro l’incedere del tempo. O almeno un po’ di tregua.

 

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