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Cultura

ABELARDO TRA FEDE E RAGIONE

LIVIO GHIRINGHELLI - 04/07/2014

Abelardo e Eloisa in una miniatura del XIV secolo

Ove si eccettui un pubblico di specialisti, il grande pubblico conosce per grandi linee Pietro Abelardo più che altro per la passione romantica che lo legò alla colta e affascinante Eloisa, con la conseguenza tragica dell’evirazione ordinata per vendetta dallo zio di lei Fulberto, canonico di Notre-Dame. Ne fa fede l’Historia calamitarum mearum (1132-1133), autobiografia indirizzata in forma di lettera a un amico, da cui emerge un percorso di vanità ed orgoglio, che lo fece adescare dalle lusinghe dei sensi.

Ma nella storia della filosofia e della teologia Abelardo si afferma per ben altri meriti: la soluzione offerta nell’ambito della disputa sugli universali (entità generali che definiscono certe proprietà) e l’estensione della sua logica e semantica sul terreno teologico, con la relativizzazione delle auctoritates della Chiesa, rovesciando la nota espressione di Agostino: crede ut intelligas. Dubitando facciamo ricerca e ricercando raggiungiamo la verità. Suo principio primo: nihil credendum, nisi prius intellectum.

Nato nel1079 inBretagna a Le Pallet da una famiglia di piccola nobiltà, Abelardo è destinato alla carriera militare, ma ben presto decide di abbandonare Marte per Minerva. Studia a Loches nella Francia centrale dal 1093 al 1099 per seguire le lezioni di Roscellino di Compiègne, maestro di un nominalismo estremo (le idee non sono che nomi frutto della mente, flatus vocis, non designano delle cose), quindi a Parigi è allievo di Guglielmo di Champeaux, maestro di dialettica e grande sostenitore del realismo, per cui l’universale non è un’identità, un’essenza comune, bensì una semplice somiglianza, che è data dalla indifferenziazione, nessun individuo ha in comune con un altro né la materia né la forma.

Abelardo interviene nella disputa ritenendo coi nominalisti che l’universale può essere attribuito alle voces (parole), non alle cose. La loro attività significa concetti, non cose esistenti (res). Per ottenere l’universale bisogna cogliere la somiglianza comune degli esseri che sono nello stesso stato: statum autem hominis ipsum esse hominem, quod non est res, vocamus: chiamiamo status dell’uomo l’uomo stesso, non la sua realtà: non si tratta di una natura comune, ma del fatto che alcuni individui si trovino ciascuno nello stesso status di altri. La comunanza di status non implica un’identità sostanziale, ossia reale, tra gli enti. Posizione concettualista. Per Abelardo dell’universale si ha soltanto opinione, non scienza; è solo del particolare che si può avere autentica conoscenza. Sono espunti tutti gli aspetti metafisici come spuri.

Lasciata Parigi Abelardo intraprende una carriera autonoma di insegnante a Melun e a Corbeil. Fonda una sua scuola presso la montagna di Sainte-Géneviève e nel 1113 inizia lo studio della teologia; si reca quindi a Laon, in Piccardia, dal celebre Anselmo, con il quale rompe ben presto, come già avvenuto con Guglielmo di Champeaux. Nel 1114 consegue finalmente la cattedra a Notre-Dame. Qui gli amori con Eloisa: “Avevo allora una tale fama e un tale fascino, anche in considerazione della mia giovane età, che a qualsiasi donna mi fossi degnato di offrire il mio cuore, non avevo timore di ricevere alcun rifiuto”.

Abelardo ed Eloisa concepiscono un figlio, Astrolabio, si uniscono segretamente in matrimonio nonostante Abelardo sia vincolato al celibato. Conseguenza dell’infortunio: Eloisa prende i voti ad Argenteuil, Abelardo si fa monaco a Parigi nell’abbazia di Saint-Denis e può quindi attendere, libero da altri impegni, alla sua speculazione filosofica e teologica. I due non si rivedranno mai più.

Del 1120-1121 sonola Teologiadel sommo bene e la prima versione di Sic et non. Nel 1121 il Concilio di Soissons pronuncia una condanna contro Abelardo alla prigionia e fa bruciare la prima di queste opere. Ripara in un oratorio presso Troyes chiamato Paracleto, di cui Eloisa diventa badessa nel 1129. Nel 1139 alcuni teologi, in primis Bernardo di Chiaravalle, lo attaccano per le sue dottrine ritenute eterodosse.

Il Concilio di Sens, a cui Abelardo non si presenta, si pronuncia contro la sua impostazione teologica, ma non condanna la persona. Abelardo è alla volta di Roma, ma, ammalatosi, si ferma a Cluny, ospite dell’Abate Pietro il Venerabile, grazie alla cui mediazione si riconcilia con Bernardo. Muore il 21 aprile 1142 nel monastero di Saint-Marcel-sur-Saône. Le sue spoglie sono portate al Paracleto, accolte da Eloisa.

Nella Teologia del sommo bene Abelardo afferma: “Sulla natura di Dio non ci impegniamo a insegnare la verità, ma ci sembra giusto proporre qualcosa di verosimile vicino all’umana ragione e non contrario alla Scrittura”. Il contenuto del dogma è mantenuto intangibile, mentre la critica investe la sua esposizione. Se la separazione tra res e vox è massima nel caso di Dio, ci è possibile parlare di lui solo attraverso metafore, utilizzando un linguaggio figurato. Esiste una religione naturale, conosciuta con chiarezza dai filosofi greci e latini, che la rivelazione cristiana avrebbe solo portato a compimento.

Nell’ultima opera Dialogo tra un filosofo, un giudeo e un cristiano, Cristo è solo la pienezza della verità e viene oscurata la cesura fondamentale della rivelazione cristiana nella storia. Nei testi sacri è obliterata la dimensione del mistero. L’elemento misterioso è senz’altro ricondotto a fenomeno umano (v. inferno e paradiso). Non solo la dottrina, ma anche la vita dei filosofi espresse al massimo grado la perfezione evangelica e apostolica. “Nessuna persona intelligente proibirebbe di approfondire e discutere la nostra fede con argomentazioni razionali. Quando la ragione vuol rendere certo qualcosa di cui si dubita, si fa ragione argomentativa e la sua verità, che è stata indagata, è sempre più ferma di quella dell’autorità, che è solo presentata… Nel sostenere la fede non importa ciò che è in verità, ma ciò che può essere pensato”.

Quanto all’Etica, opera del 1139, Abelardo ritiene che l’essenza del peccato è l’intenzione di compiere il male; l’intenzione di fare il bene è l’essenza della bontà; l’intenzione buona è quella che non dispiace a Dio. L’atto operativo ha il solo valore dell’intenzione che lo detta. Abelardo comunque rifiuta la traditio peccati di generazione in generazione come conseguenza della colpa di Adamo, onde l’azione salvifica di Cristo.

Al figlio Astrolabio in una lettera aveva scritto: Non tentare di costringere qualcuno a credere con la forza, perché vi può essere indotto solo dalla ragione: estorceresti menzogne in materia di fede. La fede, Astrolabio, è un prodotto razionale. In caso contrario, è un’apparenza. E Abelardo intendeva determinare razionalmente il più possibile i dogmi (soprattutto quello della Trinità) e passare la fede al setaccio della dialettica.

 

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