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Politica

TEATRO, LA MODA DELLE FONDAZIONI

RAIMONDO FASSA - 01/08/2014

Le fondazioni facilitano il fundraising?

Aggiungo alcune note, di carattere più generale, a “corollario” di quanto detto nel mio precedente intervento circa la possibilità di costituire un “nuovo Teatro” a Varese.

Sono state esibite l’altra volta le ragioni sia perché esso dovrebbe essere “pubblico” sia le difficoltà di cui tener conto nel realizzarlo. Mi permetto ora di mettere in guardia da una facile illusione: quella, cioè, di poter risolvere ogni problematica tramite la costituzione, da parte del Comune, di una Fondazione a cui affidarne la gestione.

Quella della “Fondazione” è una sorta di “moda” invalsa da una decina d’anni in qua in Italia per gestire ogni genere di attività più o meno ricollegabile al settore della cultura: non solo il Teatro, ma anche il Museo, la Galleria d’Arte, il Festival…

Più d’una volta, questo tipo di struttura ha dato esiti inferiori alle attese, e per ragioni, per così dire, “strutturali”: riconducibili, cioè, non alla buona o cattiva volontà delle persone, spesso assai stimabili, chiamate a gestirle, ma ad una serie di “difetti di fabbricazione” che saranno qui di seguito illustrati.

Le ragioni dichiarate per cui un Ente pubblico decide di istituire una Fondazione, sono tutte riconducibili al suo carattere “privatistico”. Perciò, in primo luogo, si ritiene che essa possa agire in modo più “snello”, ad esempio, di un Comune nell’affidare incarichi, disporre lavori, adottare iniziative eccetera: essa cioè, nell’intento di chi l’ha concepita, dovrebbe sfuggire ai “lacci e lacciuoli” della burocrazia (e si dimentica che spesso questi vincoli sono posti a garanzia della prosaica ma imprescindibile esigenza del “pareggio”).

In secondo luogo, si ritiene che la Fondazione, proprio perché “privata”, per una sorta di indimostrata attrazione modale sia più idonea dell’Ente pubblico ad attrarre finanziamenti provenienti dalla società civile.

Detto fatto: si procede all’approvazione di uno Statuto, si nominano un Presidente e un Comitato di gestione, spesso affiancati da un Comitato tecnico-scientifico. Si stabilisce inoltre un fondo di dotazione iniziale (apparentemente assai pingue ma, come vedremo, ben presto destinato a rivelarsi piuttosto esiguo) e si stipula una convenzione pluriennale in virtù della quale l’Ente pubblico costituente si impegna ad elargire alla Fondazione un contributo annuo, quale corrispettivo del servizio che la Fondazione stessa gli rende. Tale servizio consiste, contestualmente, nella gestione dell’attività (Teatro, Museo ecc.) e nell’attività di fund raising presso i privati.

Inizialmente, tutto sembra andare a gonfie vele. Ma, ad un certo punto, il meccanismo “si inceppa”. Si scopre cioè, dopo qualche anno, che la Fondazione si è, per dire così, “mangiata” tutto il fondo di dotazione e che è gravata da debiti ai quali non è in grado di far fronte. Tra le inevitabili polemiche, l’Ente pubblico si trova costretto o a “ricapitalizzare” la Fondazione, oppure a disporne lo scioglimento.

Le ragioni di tale esito sono molteplici.

La prima è che i privati, di solito, “latitano”. Vuoi perché non hanno i danari; vuoi perché non vedono un “ritorno”; vuoi perché non vogliono compromettersi con una maggioranza politica che, un domani, potrebbe non esserci più; vuoi perché non vedono perché debbano sostenere un soggetto nella cui gestione non sono implicati.

La seconda è che, rimanendo l’Ente pubblico l’unico sostanziale sovventore della Fondazione, il suo Comitato di gestione oggettivamente finisce per diventarne, a poco a poco, un “ostaggio”. E non perché la parte politica per forza interferisca con le sue attività. Ma perché – com’è inevitabile, visto che paga – pretende, ad ogni costo, dei risultati. Per ottenere i quali, occorrono danari, danari … e ancora danari.

Sicché la Fondazione – ossia il suo Comitato di gestione – si sente gravata da sempre maggiori responsabilità, e viene a poco a poco indotta a “fare il passo più lungo della gamba”, in ciò sostenuta dalla promessa di sempre maggiori stanziamenti a suo favore e dalla fiducia che le passività dei primi anni siano dovute solo alla fase di start up. Ecco perché prima viene consumato il fondo di dotazione (il quale dovrebbe invece costituire una sorta di “suprema riserva” per situazioni di improrogabile ed urgente necessità) e il contributo pubblico annuale viene poi in parte assorbito dalle perdite dell’esercizio precedente: sicché, ad un bel momento, ci si trova di fronte ad una situazione debitoria, accumulatasi di anno in anno… pari a quella dell’esercizio in corso!

Dopodiché, è tutto un rimpallo di responsabilità. Il Comitato di gestione sosterrà che, avendo esso agito sempre sotto la manleva politica dell’Ente pubblico, è quest’ultimo che si deve accollare le perdite. Mentre l’Ente pubblico, dal canto suo, sosterrà l’esatto contrario: e cioè che è la Fondazione, nella sua qualità di soggetto privato del tutto autonomo, a doverci pensare.

Chi rischia di farne le spese, saranno o i creditori della Fondazione, sballottati da Erode a Pilato, oppure i cittadini contribuenti, chiamati a ripianare le perdite, ovvero i volenterosi gestori. Ai quali ultimi, per giunta, in Italia un’improvvida legge ipocritamente proibisce di percepire qualsivoglia indennità: come se impegnarsi nel settore della cultura debba per forza essere una sorta di volontariato!

Il problema, lo ripeto, non sta nelle persone. La questione sta “nel manico”. E cioè che le Fondazioni “vere” dovrebbero essere costruite in tutt’altra maniera.

In primo luogo, una Fondazione deve essere munita di un fondo di dotazione così pingue da poter consentire, con i soli interessi derivanti dalla sua prudente gestione:

a) di mantenere costante anno per anno, secondo l’inflazione, il valore del fondo di dotazione;

b) di far fronte, con le sole eccedenze residuali dalle somme di cui al punto a), alle spese derivanti dalle attività a cui è preposta (Teatro, Museo, ecc.).

In secondo luogo, una Fondazione dovrebbe essere gravata anche dall’attività di reperire altri fondi – tramite corrispettivi di servizi a chiunque elargiti e/o raccolta di donazioni – ma non da quella di gestire – come suol dirsi, “in prima persona” – l’attività stessa a cui è preposta.

La gestione del Teatro o del Museo va fatta cioè da un unico soggetto, individuale o collegiale, nominato sì dalla Fondazione, ma da questa separato e distinto, a cui quest’ultima dica: “Questi sono i danari a tua disposizione. Impiegali al meglio per i fini istituzionali: alla fine del tuo mandato, e sotto tua patrimoniale responsabilità nei miei confronti (garantita da idonea polizza fideiussoria), me ne darai conto”.

Si obietterà che, per costituire una Fondazione di questo tipo, occorrono somme enormi. Ad esempio, per garantire un reddito di 500.000 euro l’anno (che è quanto costa un Teatro pubblico da mille posti, tenuto conto degli introiti), serve, agli attuali tassi di interesse dei titoli decennali, un fondo di dotazione di non meno di 10.000.000 di euro!

Risponderò così.

In primo luogo che, quando si decide di costruire un Teatro o un Museo, non basta avere le somme per costruirlo (comunque dell’ordine di 5-10 milioni di euro), ma anche quelle per gestirlo: sennò, se non si hanno i danari, è meglio non farne niente, piuttosto che – come si diceva una volta – “far le nozze coi fichi secchi”.

In secondo luogo che – di fronte a una gestione seria, la quale offra garanzie di poter agire nel lungo periodo, del tutto indipendentemente dalla maggioranza politica di volta in volta al potere – è molto più facile che arrivino i contributi privati.

In terzo luogo, che è ora di muoversi in un’ottica non più meramente municipale ma, quanto meno, provinciale, e ciò a prescindere dal destino dell’Ente Provincia. Ad esempio, nel territorio di quella di Varese, il principale polo culturale potrebbe essere Gallarate (che ha già due teatri pubblici più il MAGA), su cui investire la maggior parte delle risorse di tutti i Comuni del territorio, a servizio dei cui abitanti dovrebbero primariamente andare le attività che si svolgono a Gallarate. Lo stesso potrebbe dirsi per Busto Arsizio per quanto attiene all’archeologia industriale. E forse così – mettendo assieme le risorse di tutti (comprese Istituzioni extracomunali come, ad esempio, l’Università dell’Insubria e la Camera di Commercio) e selezionando bene dove investirle – si potrebbe raggiungere un fondo di dotazione degno di questo nome.

Si dirà che è impossibile superare i campanilismi. Il problema è che, se così non si agisce, il “fare rete” oggi ossessivamente da tutti ripetuto come un mantra resterà un puro e semplice slogan, e si morirà a poco a poco ciascuno per proprio conto, invece di riuscire a vivere – o, quanto meno, a sopravvivere – tutti assieme!

 

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