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Attualità

POVERI NOI

MANIGLIO BOTTI - 05/09/2014

Dal film “Ladri di biciclette”

In un suo libro scritto qualche anno fa Giampaolo Pansa ha condensato nel titolo una constatazione pessimistica di cui da tempo sta osservando gli effetti nel Paese: “Eravamo poveri, torneremo poveri”. Pansa, grande giornalista e ottimo conoscitore della realtà quotidiana, è del 1935 e da ragazzo e da giovanotto ha vissuto in pieno gli strascichi di un periodo di vacche magre durato a lungo per la maggior parte degli italiani, almeno fino a tutto il decennio dalla conclusione della seconda guerra mondiale, quando cominciarono a intravedersi il cosiddetto boom economico e un più diffuso benessere. Ma prima, solo poco tempo prima, non era così: mense sguarnite, dove a una successiva sovrabbondanza di cibo sopperivano (quando si poteva) la fantasia e il risparmio delle mamme, case gelide d’inverno, un’istruzione conquistata a suon di sacrifici e di privazioni, senza contare le guerre totali o interne, per lo più inutili e sempre devastanti per le famiglie, cui lo stato liberale e il fascismo facevano ricorso. Non mancavano, probabilmente, le speranze di un riscatto e di una vita migliore, cose che invece oggi paiono del tutto scomparse in Italia. Ma quella era la situazione.

I segni indicatori di una crisi e di una povertà che, nonostante le illusioni e gli annunci trionfalistici, minaccia di ritornare non sono pochi, a partire dal momento in cui – poco meno di vent’anni fa – in Italia il debito pubblico superò in percentuale il prodotto interno lordo. Si tratta di una povertà “diversa”, ma basta guardarsi un po’ attorno perché anche coloro i quali non vogliono vedere se ne rendano conto: la disoccupazione giovanile (molto più dannosa sotto il profilo psicologico perché la condizione culturale è più alta del passato) tocca punte del settanta, ottanta per cento nel Meridione e del cinquanta nell’intero Paese; le grandi fabbriche mettono in cassa integrazione o in mobilità gli operai, le piccole aziende chiudono, le imprese private si riducono drasticamente, uno Stato fortemente burocratizzato per sostenersi fa sempre più ricorso a esose tassazioni. Un giorno sì e l’altro pure si legge che prima o poi si aggrediranno con “prelievi” le pensioni, che magari per alcuni sono laute ma per tutti gli altri – la maggioranza – o sono appena sufficienti o inducono a restrizioni della cinghia che fanno direttamente precipitare gli interessati nella conclamata povertà. E il futuro è peggio del presente e privo di speranze, perché i giovani che non trovano lavoro mai potranno contare su una pensione decorosa.

La gente e le città, anche le piccole città di provincia, stanno cambiando. Per capire e vedere basta prendere un treno e viaggiare in seconda classe attraverso l’Italia o anche soltanto salire su una metropolitana. Cose che i politici non fanno mai, e anche molti cittadini perché come svago non se lo possono più permettere.

Rimini, città per antonomasia della provincia italiana, portata come esempio da grandi cineasti (Zurlini, Fellini), è stata ed è una specie di termometro dell’italica condizione. Sembra che vi si possa ancora vivere bene, ma è un po’ come il salone del Titanic in via di affondamento, dove l’orchestrina suona e gli ospiti danzano incuranti della tragedia imminente. Le notti di Rimini assomigliano sempre di più alle cupe atmosfere di una futura (ma non tanto) città di Los Angeles, disegnata dal regista Ridley Scott nel film Blade Runner: dove si parla un misterioso melting pot (un misto di inglese, russo, italiano), dove si cammina con la mano bene stretta sul portafoglio, dove ogni cinque metri si incontrano un accattone e altri variegati questuanti, dove gli angolini bui dei marciapiedi sono occupati da venditori di merce abusiva e contraffatta e da bande di truffatori – i famosi “pallinari” – che si adoperano nel famoso gioco delle tre tavolette.

V’è un’altra “moda” nella città balneare in corso da qualche tempo: i furti di biciclette, anch’essi segni indicatori di una nuova povertà, secondo alcuni, per quanto non sembri esattamente la povertà raccontata nel film di De Sica, Ladri di biciclette, appunto, un caposaldo del nostro neorealismo cinematografico. Allora a mettere a segno i “colpi” erano disperati che se la rifacevano su altri disperati. Qui – a quel che si dice – sarebbero bande di nordafricani appena entrati nel Paese e immediatamente arruolatisi in un particolarissimo giro d’affari. Non vengono rubate le biciclette costose – anche quelle – al titanio e affascinanti mountain bike, ma quelle vecchie e scassate, e poi riciclate – si perdoni il bisticcio – a tambur battente: la sella da una parte, il manubrio dall’altra… In seguito le biciclette sono immesse in un mercato interno (composto dagli stessi nordafricani) o esterno: studenti che abitano in città universitarie (pianeggianti). Se vedete in giro bici verniciate di nero o di un rosso opaco, nelle quali non si riconosce più la marca, dubitate della loro legittima provenienza.

Non c’è legamento o catena che tenga. È un tributo (una bici l’anno) che si è quasi costretti a pagare. Pochi ne sono indenni. Pare che anche il sindaco riminese ne sia rimasto vittima, benché avesse munito il suo velocipede di una catena con lucchetto pagata settanta euro. Esce da una riunione di giunta e non trova più nulla. Con i denari spesi per l’ “antifurto” avrebbe acquistato un paio di bici al mercato nero, tanto valgono. Ma un sindaco – per adesso – non può farlo. Né rimanere a piedi. E in altro modo ha ricominciato a pedalare.

 

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