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Attualità

GIORGIO BOCCA, PARTIGIANO DELLA PAROLA

FRANCO GIANNANTONI - 07/01/2012

Ci ha lasciato centinaia di articoli, saggi, volumi sulla storia del Novecento, requisitorie feroci sul costume del Bel Paese, ritratti a volte impietosi di uomini politici, analisi profonde sulla questione meridionale, reportage di guerra dal Vietnam, inchieste sulla campagna palestinese, articoli sul processo al boia nazista Eichmann, un sofferto penetrante viaggio fra il terrorismo rosso e nero, ma la fotografia più lucida, esaltante, impregnata di forti valori etici e civili di Giorgio Bocca che aiuterà a trasmetterne l’immagine per sempre, è il racconto della Resistenza. La stagione più affascinante della sua vita e non solo perché era giovane e pieno di speranze. Una “bella vacanza” amava definirla, il “tempo della neve e del fuoco” sulle amate montagne di quel fazzoletto di terra, la val Maira, la val Varaita, la val Grana, il villaggio fatto di povere baite di Paralup dove c’era il comando della sua prima banda partigiana, Madonna del Colletto passaggio strategico per gli uomini della pianura, la placida ruvida Cuneo.

Lì, in quel tempo di vita e di morte, avevano preso forma e sostanza l’uomo libero, il giornalista e lo storico che sarebbe poi stato, fra le pallottole che foravano l’aria, il nemico che seminava il terrore, la speranza che un giorno sarebbe tutto finito, il fascismo in cui era nato ed era stato educato come i suoi coetanei, la giustizia e la libertà le due parole magiche e impronunciabili che avrebbero dato nome all’organizzazione militare del Partito d’Azione in cui militava con Duccio Galimberti, Detto Dalmastro, Dante Livio Bianco, Giorgio Diena, Lino Silvestri tanto per fare alcuni nomi di quei ardimentosi compagni con cui, dopo l’8 settembre, aveva preso il fucile per dare una svolta alla storia d’Italia.

Bocca aveva combattuto da valoroso, comandato la prima e la seconda brigata GL, poi la seconda Divisione, meritando sul campo la medaglia d’argento al valor militare. Un grande partigiano, un ottimo capo, generoso e un po’ brusco come il suo carattere. Ma giusto: quando i suoi partigiani gli consegnarono un gerarchetto locale da fucilare, lui preferì farlo giudicare dalla gente del posto che gli salvò la vita prendendolo a calci nel sedere.

All’alba dei novantun anni, Bocca se n’è andato. Da uomo battuto. Ne era consapevole. Lo aveva ripetuto nelle ultime chiacchierate con gli amici, lo aveva detto alla televisione. “Abbiamo perduto”, lo slogan quasi maniacale che aveva lanciato perché tutti capissero qual era stato il destino della sua e, per chi crede nelle cose belle, della nostra vita. Aveva vinto l’Italia sconciata, quella dei ladri pubblici e privati, dei corruttori, delle varie logge, della politica malfamata e mafiosa, della criminalità organizzata, dei salotti gattopardeschi, dei doppiogiochisti, dei grandi evasori.

Eppure lui, non il solo, ma certo fra i più pugnaci e più coraggiosi, la battaglia contro quel nemico non tanto oscuro ma apparso alla lunga insuperabile, l’aveva combattuta a viso aperto. Spesso si era trovato solo e, ora, sul filo di lana della lunga vita, il montanaro, fatto con il filo di ferro e le pietre delle sue montagne, aveva saputo tirare le somme anche se in extremis l’uscita di scena di Berlusconi gli aveva offerto lo spunto per l’estremo sorriso.

“Mi manca la voglia di scrivere, sono stanco”, aveva confessato a Eugenio Scalfari, il cofondatore di “la Repubblica” quando era venuto ai primi di dicembre a Milano a fargli visita. Per uno che della scrittura aveva fatto la ragione della vita non poteva esserci epitaffio peggiore. Stanco di scrivere “con passione” vedendo che il mondo non cambiava e tutto rimaneva come prima. Una confessione che gli era costata fatica e anche qualcosa di più. Una resa all’orgoglio, quell’orgoglio che in passato non gli aveva impedito di correggere i suoi errori quando li aveva compiuti, la Lega Nord pensata sulle prime come “una ciambella di salvataggio” per poi affossarla brutalmente quando si era reso conto di quale pasta fossero fatti Bossi e i suoi sodali (“fascisti senza il fascismo”); la TV con Berlusconi, un cammino breve, “una trappola commerciale per annullare nel tempo ogni idea”; il terrorismo, una realtà drammatica e non “la costruzione poliziesca dell’Ufficio Affari Riservati del Ministero dell’Interno” come sulle prime aveva pensato.

“Un partigiano della parola”, l’ha descritto così, ai funerali di Milano don Roberto Vignolo, un prete della bassa Lodigiana, amico di famiglia con cui il laico Bocca aveva trovato quel pertugio di libertà dentro cui confrontarsi ed esprimere dubbi con una luce di speranza. “Sapeva ascoltare il Creato” ha aggiunto il sacerdote per dire che Bocca sapeva vedere e misurarsi, valutare, pensare, giudicare. Faceva quello che aveva sentenziato Montaigne nel tempo antico: “scrivo non per adulare o blandire ma anche per ferire e suscitare reazioni di passioni”.

Bocca l’avevo conosciuto nel febbraio 1969 quando, dopo un buon apprendistato a “La Prealpina”, diretta allora da quel gran galantuomo di Mario Lodi, il padre di Massimo, fui chiamato da Giampaolo Pansa “prima maniera” al grande “Il Giorno” di Italo Pietra e Paolo Murialdi ma anche di Angelo Del Boca, di Marco Nozza, di Natalia Aspesi, di Pietro Citati, di Guido Nozzoli, di Bernardo Valli, di Vittorio Emiliani, di Luigi Locatelli, di Ettore Masina, e tanti altri. Bocca era il punto di riferimento per tutti, i giovani per primi, maestro inarrivabile di scrittura tagliente e soda ma soprattutto di rigore professionale. Per lui il giornalista doveva scarpinare per raccogliere la notizia, riscontrarla, dire la verità. Chi traccheggiava, flirtava, strusciava, faceva un altro mestiere che aveva un nome preciso. Non esisteva nessuno spazio di manovra.

Credo di avere bene imparato la lezione al punto da essere inviso col tempo sia a destra (figurarsi!) ma anche a sinistra. La memoria sul punto è vivissima perché un bel giorno toccò al cinquantenne Bocca venire in soccorso di chi scrive quando la cricca dei politici del tempo al governo della città e degli amici industriali assai influenti, avevano preso cappello per alcuni miei servizi sulle condizioni del lago di Varese non molto dissimili da quelle odierne. Uno schifo. Bocca volle venire a Varese a darmi una mano, ascoltò decine di persone, poi sentenziò in un articolo e un titolo passati alla storia che tutto era vero e che a quel punto “La città si specchia nella m…”. Erano quelli gli anni in cui al capezzale del malato moribondo si attardavano insigni studiosi con progetti faraonici e molto onerosi per le finanze pubbliche. L’inchiesta di Bocca fu sepolta da critiche rozze, erano scesi in campo amministratori pubblici e politici, lo scandalo andava rintuzzato come di dovere ma soprattutto quello che non era andato giù era quel titolo “sgarbato” che offendeva la “varesinità” e il carattere moderato di una gente che, pur al corrente dello stato del lago, avrebbe preferito fare finta di niente. “E allora è colpa del nostro Giannantoni che il lago puzzi e non sia balneabile!”, aveva replicato Bocca, dandomi un po’ di fiato. Il lago oggi sta male da quello che si legge come allora.

Un altro blitz, ma questa volta non ero della partita se non indirettamente come studioso alle prime armi di quell’epoca storica, fu quando Giorgio Bocca che stava girando per l’Italia presentando il suo fondamentale “Storia dell’Italia partigiana” (settembre 1943-maggio 1945), edito da Laterza, aveva definito Varese e il Varesotto “zona grigia di Resistenza”. Per la prima volta, rompendo i logori riti della retorica patriottarda, senza togliere il merito a quei pochi che avevano preso le armi contro i nazifascisti, la città e la provincia erano state poste in una luce storiografica corretta. Bocca aveva sollevato due questioni distinte da cui era derivato il giudizio finale. La prima era una questione orografica: Varese era terra di laghi e di grandi arterie stradali, compresa l’autostrada da Milano, e aveva il confine affacciato sulla Svizzera, tutti elementi che confliggevano con la possibilità di costituire bande partigiane “mordi e fuggi”. La seconda era una questione di strategia militare: il solo esempio di una certa importanza, quello del “Gruppo 5 Giornate” del Monte San Martino del colonnello Carlo Croce, aveva dimostrato che mettersi su una montagna in posizione d’attesa, in una fascia di territorio ristretto, era stato un errore fatale permettendo al nemico un facile accerchiamento e la distruzione della banda. Altri gruppi sempre di stampo militare, seppur più modesti, non erano mancati, ed erano finiti nello stesso modo. Le uniche unità che avevano funzionato erano state quelle gappiste della 121a brigata Garibaldi “Gastone Sozzi” di Walter Marcobi e Claudio Macchi e della 148a “Matteotti” di René Vanetti e Mario Gallini, una cinquantina di elementi in tutto, che avevano lasciato il segno in città.

L’intervento di Bocca che, semmai, aveva valorizzato i pochi combattenti varesini, aveva provocato una secca replica e malumori diffusi nel mondo partigiano. La Resistenza varesina si era sentita offesa dallo scritto e aveva affidato alla penna del professor Luigi Ambrosoli, insigne docente universitario di Storia del Risorgimento (che fra l’altro stimava Bocca) la risposta, tutta giocata sul fatto che Varese comunque aveva fatto il proprio dovere con il grande fenomeno della Resistenza “disarmata”, i massicci scioperi operai della primavera del ’44 nelle fabbriche “protette” che fabbricavano aerei e armi per il Reich, pagando il prezzo con arresti e deportazioni. Era così stata tamponata una sgradevole ferita col compiacimento di tutti.

Quando fra il 1970 e il 1974 Varese conobbe la stagione dello squadrismo neofascista, Bocca non mancò all’appuntamento. Tornò in città con la sua Alfa Romeo (che gli rubarono in via Sacco) e scrisse pagine acute, svelando i tratti di una trama nazionale che voleva fare di Varese, con Roma e Pisa, una delle basi della reazione nera. Gli fui a fianco, ricordo, anche nell’occupazione del Salone Estense, quale segno di protesta per il crescere a dismisura della violenza e per un certo lassismo delle autorità costituite, in primis la Procura della Repubblica.

Era quello il tempo in cui roteavano i manganelli ma anche quello in cui si tentò, da parte di “Ordine Nero”, di usare la dinamite e quello in cui si fece esplodere ad opera di criminali rimasti sconosciuti una bomba in piazza Mercato, vittima il fioraio Brusa di Casbeno che aveva inavvertitamente toccato i fili di collegamento. Era l’anticipazione della vicinissima (in chiave temporale) strage di piazza della Loggia a Brescia.

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