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In Confidenza

IL SE E IL COME

Don ERMINIO VILLA - 03/10/2014

santovolto

Roma, chiesa del Santo Volto di Gesù

Da tempo – si dice – la Confessione è il sacramento più in crisi. Teologi e pastoralisti lo denunciano ormai da qualche decennio e anche i documenti del Magistero lo mettono in evidenza. Molteplici possono esserne le cause.

C’è chi sostiene che questo sia solo un aspetto della più generale “crisi di fede” tipica delle società secolarizzate; qualcun altro è portato a giustificarla col calo delle vocazioni, che ormai avvicina l’Europa ai paesi di nuova evangelizzazone.

Non mancano certo ragioni ideologiche, radicate nell’illuminismo, ed una mutata percezione del senso del peccato: “Una volta si sentiva dire spesso la frase: “Ma lei non si vergogna?”. Oggi non la si sente più. Probabilmente perché la risposta sarebbe: “Ma è ovvio. Perché mai dovrei vergognarmi?”. Vergogna è una parola scomparsa… La vergogna è il sentimento che si prova quando si sa di aver compiuto un atto che la coscienza morale condanna” (Norberto Bobbio).

Ma forse – è giusto ammetterlo – alla base di tutto c’è una profonda carenza nella prassi pedagogica e catechetica delle nostre comunità, che – giunti a questo punto – siamo chiamati a ripensare seriamente per riproporre convintamente… il Vangelo della misericordia!

La controprova è data dalla percezione chiara di molti penitenti, per i quali il sacramento della Confessione (pochi sanno che si chiama anche “Riconciliazione”) coincide con… la “confessione dei peccati”. Quella che è solo “una parte” del dialogo sacramentale viene di fatto sentita – purtroppo! – come “il tutto”.

Certo, però, non è sufficiente una buona e illuminata ragione a far riscoprire la forza creatrice dell’esperienza di riconciliazione. Occorre forse, piuttosto, ricuperando con sapienza e coraggio l’antica prassi mistagogica, ridare al gesto sacramentale tutto il suo valore potenziale e concreto.

Papa Giovanni Paolo II, rifacendosi all’invito evangelico riproposto con forza dal Concilio Vaticano II, ha indicato come priorità pastorale per il Terzo Millennio nientemeno che “la santità” come qualità ecclesiale e chiamata individuale rivolta a tutti i battezzati.

Non ci domandiamo perciò “se” questo mirabile sacramento abbia ancora qualcosa da dire all’uomo d’oggi, ma “come” possa parlare ancora e costituire una grazia attuale per i cristiani del nostro tempo.

Sento come un appello alla responsabilità quello di individuare – educato dall’esperienza che vado maturando nell’esercizio del ministero – una modalità concreta di celebrazione di questo sacramento che ne esprima i contenuti effettivi e ridoni a tutti i battezzati che lo chiedono la possibilità di contemplare il volto misericordioso di Dio nella Chiesa e a noi sacerdoti la gioia di testimoniare personalmente l’amore fedele e generoso di Dio.

Non si salvaguarda la “traditio” rimanendo ancorati al passato. La Chiesa rischierebbe una pericolosa rottura (col mondo giovanile, ma non solo) se non fosse capace di interpretare correttamente la domanda che ormai emerge potente da più parti. Si può giocare così in modo dialettico col termine “traditio”: se la Chiesa non “traduce” il dono ricevuto in modo da renderlo intelligibile, “tradisce” il suo mandato.

 

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