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Libri

NATALE TRA I “SELVAGGI”

ALFREDO e ANGELO CASTIGLIONI - 07/01/2012

Dal settembre del 1959 eravamo nel Nord Camerun per le riprese del film Africa segreta. Mancavano pochi mesi alla proclamazione della sua indipendenza. Il primo gennaio 1960 i francesi avrebbero lasciato per sempre questo Paese africano che amministravano per conto dell’ONU da circa quindici anni. Già colonia tedesca, alla fine della prima guerra mondiale il Camerun venne diviso in due parti affidate, quali “mandati” della Società delle Nazioni, alla Francia (la parte orientale, circa tre quarti dell’ex colonia tedesca) e alla Gran Bretagna (la parte occidentale). Al termine del secondo conflitto mondiale, i “mandati” della Società delle Nazioni vennero trasformati dall’ONU (che si era sostituito alla Società delle Nazioni), in “Amministrazioni fiduciarie” per permettere alle popolazioni del Paese di avviarsi gradualmente all’autogoverno. Era il 12 dicembre 1946. Il giorno dell’indipendenza del Camerun francofono, chiesta dalla Francia e approvata nel marzo 1959 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, era stato fissato per il primo gennaio 1960.

Dal diario della spedizione. Mokolo, Nord Camerun, 22 dicembre 1959

Da alcuni giorni siamo a Mokolo, un piccolo villaggio ai piedi dei monti Mandara, nel Nord del Paese. Per le strade c’è aria di festa. Molti non conoscono il significato della parola “indipendenza”, ma intuiscono che è un avvenimento importante, che qualcosa sta per cambiare e tutto ciò che modifica il tranquillo e monotono trascorrere dei giorni è motivo di allegria. Sui monti Mandara, che si estendono per alcune centinaia di chilometri tra il Camerun francese e quello inglese, vive una popolazione paleonegritica poco conosciuta, i Matakam, che vogliamo documentare. È difficile organizzare una spedizione per raggiungere gli insediamenti più isolati, soprattutto quando tutti sono occupati a ballare, cantare, a bere dolo – una bevanda alcolica di miglio fermentato –, a divertirsi, immersi in un’euforia generale.

I pochi francesi che risiedono a Mokolo hanno ornato gli alberi dei giardini con sfere di vetro colorate e con strisce di alluminio scintillanti al sole per festeggiare, come possono, il Natale e l’anno nuovo che sta per iniziare. Ci accolgono con simpatia e ospitalità. Forse, per molti, sono le ultime feste che trascorreranno in Africa. Per risolvere il nostro problema e documentare la vita dei Matakam ci consigliano di rivolgerci a Monsieur Paul, il capo della subdivision amministrativa della regione.

Monsieur Paul

Il funzionario ci riceve nella sua casa. Davanti all’ingresso c’è un’acacia addobbata con strisce di stoffa e carta colorata, anche lui ha il suo albero di Natale. Intorno si respira un’aria natalizia particolare. Nel vento caldo profumato dai fiori del giardino le rondini volteggiano e stridono sotto il porticato. Piccolo e grasso, Monsieur Paul ha un enorme ventre che preme sotto la sahariana di lino bianco. È l’oeuf d’Afrique, come è chiamato dai francesi, uno stomaco dilatato dalla birra bevuta in grande quantità.

Ci accoglie con un sorriso: «Il fait très chaud ici» e così dicendo apre il frigorifero che funziona a petrolio. Ci porge alcune bottiglie di birra. Assaporiamo lentamente il gusto amarognolo della bevanda che non bevevamo da tempo. Su un tavolino, a fianco della poltrona in cui è comodamente sprofondato, Monsieur Paul appoggia la sua bottiglia bevuta in un sol fiato. Contiamo i vuoti: cinque bottiglie, e sono soltanto le nove del mattino!

Come in genere accade in coloro che vivono lontano dal loro paese, Monsieur Paul è avido di notizie. Ci chiede improvvisamente se – secondo noi – ci sarà una terza guerra mondiale. Lo rassicuriamo: anche se c’è una certa tensione tra gli Stati Uniti e la Russia, questa eventualità è abbastanza improbabile. Leggiamo sul suo viso cotto dal sole un certo disappunto: come tutti gli europei “insabbiati” in Africa, anche lui vuole convincersi che la scelta di andarsene dall’Europa per cercare nuove opportunità in terra africana è stata giusta. Qui, isolato tra i monti, si sente al sicuro, anche se la vita non è facile e bere birra è l’unico svago. Il tempo passa e aumenta il numero delle birre bevute, alle dieci un’altra bottiglia si aggiunge alla collezione di vuoti. Una birra all’ora: una buona media per conservare l’oeuf d’Afrique! È quasi mezzogiorno quando riusciamo a riportare il discorso sulle ragioni che ci hanno condotto da lui.

«Perché volete andare sulle montagne? Lassù ci sono soltanto i selvaggi!» inizia Monsieur Paul e sorridendo precisa: «Non c’è birra sui monti!». Gli spieghiamo il nostro scopo: documentare la vita di una popolazione di cui si hanno scarse notizie. «È pericoloso avventurarsi tra quei monti senza una scorta» afferma con sicurezza e sottolinea che la regione è abitata da «selvaggi con lance e frecce».

Resta un attimo in silenzio e poi aggiunge: «Siete fortunati. Tra qualche giorno parte una spedizione dell’armée per effettuare il censimento in alcuni villaggi isolati. Potete farne parte, ne parlerò al comandante». Veniamo così a sapere che sui monti più lontani esistono comunità non ancora censite. «Bisogna contarli, i selvaggi» aggiunge Monsieur Paul, mostrando una scarsa considerazione per i “selvaggi” da lui amministrati. L’indipendenza è vicina e le autorità coloniali francesi devono consegnare al nuovo potere politico l’elenco di coloro che vivono isolati sui monti. Il censimento, iniziato già da alcuni anni, deve essere completato al più presto. È un’occasione che non possiamo perdere. «La missione partirà dopodomani» ci informa. Gli facciamo presente che “dopodomani” è Natale, ma il funzionario non si scompone: «Per i militari in colonia non ci sono feste!» e ride facendo sussultare il ventre enorme. Lo ringraziamo e usciamo nel chiarore accecante. Voltandoci, notiamo che sta attaccando l’ennesima bottiglia.

Amadou e la spedizione

Il successo di un’indagine etnologica dipende anche da un buon interprete. Ci dicono che a Mokolo c’è un giovane fulbe che conosce la lingua dei Matakam. Lavora in un’officina meccanica, ma il titolare, Monsieur Jean, sta per andare en congé, un termine usato nelle colonie per indicare coloro che, per un certo periodo o per sempre, fanno ritorno in patria. Il giovane si chiama Amadou. Alto, snello, con profondi occhi neri, ci sorride mentre ci viene incontro, felice di essere stato scelto. «Sono fulbe di religione musulmana – precisa – e parlo fulbe, il francese e il matakam!» sottolinea, per far colpo su di noi. Andiamo nell’unico rest-house di Mokolo e davanti a una frizzante aranciata – Hamadou aveva precisato: «Non bevo alcool, sono un buon musulmano!» – conosciamo la sua storia.

La madre, una matakam, era morta pochi mesi dopo il parto. Come vuole la tradizione, nessuna donna del villaggio aveva voluto allattarlo, neppure le altre mogli del padre. Le donne matakam non danno il latte a un neonato che non sia il loro. Il padre era stato così costretto a cederlo a una famiglia fulbe della pianura che lo aveva allevato come un figlio.

Partiamo per i monti Mandara, è la vigilia di Natale. Le capitaine Eric, chiamato familiarmente “Monsieur Eric”, l’ufficiale dell’armée incaricato del censimento, precede la lunga e pittoresca carovana di portatori. Lo segue il magasci, un personaggio che l’amministrazione francese ha elevato arbitrariamente al ruolo di capo dei Matakam, ben sapendo che questa popolazione non riconosce alcuna autorità. Trotterella sudando e sbuffando, cercando di tenere il passo dell’ufficiale.

Monsieur Eric ha circa 35 anni, è alto e robusto e la sua falcata, decisa, possente, denota una vita trascorsa all’aperto tra le valli e le cime dei monti. Dietro veniamo noi. Abbiamo caricato su alcuni asini il pesante e ingombrante materiale da campeggio e cinematografico. La salita è faticosa e il sole cocente. È quasi il tramonto quando l’ufficiale decide di fermarsi. Il campo viene allestito su un pianoro, ai piedi di alcuni picchi su cui sono aggrappati i villaggi “ad alveare” dei Matakam. Subito l’attendente sistema un tavolo e la sedia da campo sotto uno scheletrico baobab, poi apre un ombrello come riparo dagli ultimi raggi del sole e, dopo che Monsieur Eric si è comodamente seduto, gli serve una Perrier, con una generosa aggiunta di anice: anche all’Equatore non si devono dimenticare certi piaceri della lontana patria.

Un Natale particolare

È il 25 dicembre, Natale. Non è ancora sorto il sole e già Monsieur Eric è in piedi. Una veloce doccia sotto un secchio bucherellato appeso a un ramo, una sahariana pulita ed è pronto per il lavoro. Siede al tavolo da campo. Un registro è aperto davanti a lui e al suo fianco il magasci attende gli ordini. A qualche centinaia di metri sopra di noi, tra i massi granitici, c’è il villaggio matakam, perfettamente mimetizzato nell’ambiente. Da lassù i “selvaggi” ci osservano curiosi. Tutti hanno lance e archi, ma non ci sembrano i “selvaggi pericolosi” che ci aveva fatto credere Monsieur Paul. Sono piuttosto incuriositi e timorosi. Li guardiamo e ci sembra di vivere una pagina dell’infanzia dell’uomo.

Il magasci deve convincere i fieri montanari ad avvicinarsi. Nonostante le promesse di regali, alle 12.30 nessun matakam ha lasciato le capanne. Monsieur Eric controlla l’orologio. È l’ora di pranzo e il pranzo di Natale non può aspettare. L’attendente apparecchia il tavolo. Ci sorprende constatare che non è più il taciturno ufficiale che conosciamo, ma un uomo espansivo che sorride, ci stringe le mani facendoci gli auguri. Sulla tavola è apparso, quasi per magia, un mazzo di fiori (dove li avrà trovati, l’attendente, tra questi monti brulli? È un mistero che non abbiamo saputo risolvere).

Nel frattempo, Monsieur Eric ha aperto l’ice-box e, come un prestigiatore, ha fatto apparire sei bottiglie di birra appannate dal gelo. Un regalo di Natale eccezionale con una temperatura che sfiora i 40 gradi! Inizia il pranzo che durerà a lungo. È dall’alba che il cuoco traffica con le padelle e il risultato è sorprendente. La prima portata è una zuppa di cipolle e un consommé di tortore. Segue poi un

piatto di pernici arrosto e faraone ripiene di sorgo bollito e aromatizzato con erbe che crescono nella zona. Anche noi abbiamo voluto contribuire al pranzo natalizio con alcune scatole di pesche e di albicocche sciroppate con cui il cuoco ha decorato una torta che ora troneggia sul tavolo. Il sole sta scendendo e la temperatura è mitigata da refoli di vento che salgono dal fondovalle. Seduti sulle sedie da campo, fumiamo una Gauloise parlando e ridendo in un’atmosfera resa euforica dalla birra.

Il censimento

L’allegria è contagiosa. Sono le quattro del pomeriggio quando vediamo il primo matakam sorridere, seduto su un masso poco distante. Con lui c’è tutta la sua famiglia. È alto, muscoloso e completamente nudo. La moglie, timida e grassottella, siede dietro di lui, coperta solamente da un piccolo perizoma di pelle. Alle sue spalle occhieggiano tre bambini intimiditi dalla nostra presenza. Ci ricordano pulcini spaventati intorno alla chioccia. Il sole è basso sull’orizzonte e l’aria sta rinfrescando. Ed ecco Monsieur Eric trasformarsi nuovamente in uno zelante ufficiale. Il magasci fa segno all’uomo di avvicinarsi. Il matakam si alza incerto, poi, incitato dagli altri uomini che nel frattempo sono scesi dai monti, avanza lentamente e si ferma davanti all’ufficiale, che alza la testa dal registro, ma è il magasci a parlare: «Come ti chiami?» è la prima domanda. L’uomo lo guarda stupito, in silenzio. La domanda viene ripetuta con un tono più alto e spazientito. L’uomo si gira verso gli amici che gridano il suo nome. Impassibile, Monsieur Eric lo scrive sul registro e, a lato, segna anche l’età approssimativa dell’uomo, che valuta guardandolo fugacemente, circa trent’anni.

 «Quante mogli hai e quanti figli?» è la seconda domanda. L’uomo si gira e indica la moglie e i figli e Monsieur Eric scrive: una moglie di circa vent’anni e tre bambini, due femmine e un maschio, dai due ai cinque anni. Il matakam continua a sorridere mostrando denti bianchissimi, lusingato dall’interesse che suscita la sua persona. Gli altri uomini, seduti sui massi, schiamazzano: ritengono quell’indagine un piacevole passatempo.

«Quanti animali possiedi?» è la terza, più insidiosa domanda. L’uomo guarda sorpreso il magasci. Ride divertito. Non riesce a capire il motivo di questa inutile curiosità. Gli sembra un gioco dove è possibile barare. E le risposte si fanno assurde, fantasiose, prive di fondamento: così il granaio semivuoto diventa strapieno di sorgo “da scoppiare”, un bovino ossuto si trasforma in una mucca con le mammelle gonfie di latte, pochi volatili starnazzanti sono decine di grasse galline che producono molte uova, tre capre si moltiplicano in un gregge numeroso. L’ufficiale, impassibile, continua a registrare le risposte che il magasci gli traduce.

Ci rendiamo conto che quei dati saranno consegnati ai nuovi governanti. Conosceranno sì il numero dei loro amministrati, ma anche le loro proprietà. A uno a uno tutti i presenti vengono interrogati e il censimento continua fino a sera. Il registro si riempie di nomi, di ceste di sorgo, di animali posseduti, di latte prodotto. Uno di noi osserva: «Ma è un suicidio fiscale: tutti quei dati sono una specie di “patrimoniale”, la base per future tassazioni e i dati… non sono neppure reali!».

Diciannove anni dopo

Siamo di nuovo in Camerun, a Mokolo, esattamente diciannove anni dopo quella strana avventura natalizia, è infatti il dicembre 1978. Ritroviamo Amadou, che nel frattempo si è sposato due volte e ha cinque figli. Ci accompagna sui monti: vogliamo vedere cosa è cambiato negli ultimi decenni. I Matakam non sono più nudi. Le donne hanno gonne di cotonina colorata, gli uomini magliette, jeans, radioline a pila e occhiali da sole.

Ci viene spontaneo chiedere «Dopo il censimento, i Matakam hanno poi pagato le tasse?». Amadou ci guarda e sorride: «Erano selvaggi, ma non stupidi». Ci spiega che quando vedevano gli esattori venire verso i loro villaggi, varcavano il confine e si rifugiavano nel Camerun di lingua inglese, per poi ritornare appena il pericolo era passato. «Così nessuno ha mai pagato le tasse!» ci dice ridendo. Come in tutti i paesi del mondo, anche su quei lontani monti il contribuente ha saputo difendersi dall’esosità del fisco… e con successo.

Tratto, per gentile concessione degli autori e dell’editore, dal libro “Quarantanove racconti d’Africa” di Alfredo e Angelo Castiglioni (Edizioni Nomos, Busto Arsizio)

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