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In Confidenza

CONVERTIRSI È FATICA

Don ERMINIO VILLA - 31/10/2014

grottaQuanti sono i fedeli che, quando si accostano alla Confessione sacramentale, si rendono conto di fare una preghiera, anzi una celebrazione liturgica? Non è forse vero che nella maggior parte dei casi questo sacramento è piuttosto percepito come un’accusa, simile a quella di un pentito che patteggia per avere un condono?

Eppure il Rito della Penitenza, entrato in vigore ormai da parecchi anni, prospetta e auspica un altro stile celebrativo, che però non è entrato nella vita delle nostre comunità parrocchiali, se non in minima parte e sovente soltanto in alcuni aspetti esteriori e marginali.

Eppure questo sacramento, in modo speculare al Battesimo, celebra, esprime ed alimenta l’atteggiamento fondamentale della vita cristiana: la conversione. Tutta la vita, infatti, è un esodo faticoso per passare dalla schiavitù idolatrica di sé stessi alla libertà dei figli di Dio; tutta la vita è una faticosa gestazione per morire all’uomo vecchio e rinascere come uomini nuovi, sul modello del nuovo Adamo che è Gesù.

Riconoscere le proprie deficienze è fatica, ma convertirsi lo è molto di più. Non si tratta di calcolare quanti si confessano o meno. Il problema non è mai la quantità, ma la qualità! Infatti bisogna chiedersi: perché c’è gente che si confessa “ripetendo sempre le stesse cose”? Forse perché, mancando il coraggio dell’umiltà e una seria revisione di vita, non si entra in un itinerario “terapeutico”, che fa riguadagnare la salute dell’anima…

Il problema – per i confessori come per i penitenti – è di chiedersi come fare per dare dignità e verità a ciò che si celebra.

Tutti abbiamo tanto bisogno di questo sacramento, ma anche il sacramento ha tanto bisogno di noi: infatti va meglio gestito per essere più correttamente compreso e proficuamente frequentato.

Soltanto da una corretta pratica della penitenza può crescere una Chiesa capace di ascolto, di dialogo, di comprensione, di solidarietà, di misericordia… in una parola: di riconciliazione. Infatti soltanto chi è consapevole della propria povertà e quindi dei propri peccati e ha sperimentato per grazia la gioia del perdono può essere ministro di riconciliazione, strumento di pace, testimone della misericordia di Dio.

Il perdono di Dio è gratuito (si riceve per “grazia”). Tuttavia nella preghiera consegnataci da Gesù c’è una condizione assai impegnativa: “Rimetti a noi i nostri debiti, come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (il testo greco dice anzi: “Come noi li abbiamo rimessi…”!). Dio condiziona il suo perdono alla nostra capacità di perdonarlo! Non si fa per dire…

Con la nostra Confessione “ci giochiamo la faccia” davanti a Dio e agli uomini: infatti noi tutti manifestiamo la nostra identità non certo per le pratiche religiose che compiamo, ma per la capacità di costruire relazioni vere, di risanarle quando è necessario, e di trasformare le “ferite”, le offese, in “feritoie” per lasciar passare la luce dell’amore di Dio.

Un eremita venne interrogato dal giovane discepolo sul perché l’umanità riesca in alcuni casi a essere tanto perversa e, in altri, tanto buona e generosa: “Abitano in noi due bestie affamate: una feroce e l’altra mansueta”. “Quale delle due prevarrà in me?”. Rispose il saggio: “Quella che più verrà da te nutrita” (aneddoto dei Padri del Deserto).

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