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Cultura

HALLOWEEN, FESTA ANTIPATICA

FRANCESCO SPATOLA - 07/11/2014

halloweenOra che è passato, posso dirlo: “Ho sempre odiato Halloween”, che c’entra con noi?

Zucche vuote e look horror, birra e superalcolici a fiumi, dolcetto-scherzetto per la gioia della Lindt, stupida festa artificiale da colonizzazione americana dei cervelli e delle viscere, solo Woody Allen (“Tutti dicono I love you”) me la rendeva sopportabile. E poi il richiamo spurio alla tradizione celtica e ai miti nordici mi sa troppo di riesumate adorazioni del Dio Po, elmi con le corna in testa, ramazze verdi, Braveheart di Cazzago Brabbia; insomma, un sacrosanto “vomitismo” per la goliardia kitch da Cassano Magnago, cavernicola cieca e feroce.

Quanto meglio un salto in pasticceria per i dolci della vera tradizione italica, affettuoso omaggio ai nostri morti, che gli han dato il carezzevole nome della nostra infanzia: “pane dei morti”, “oss di mort”… Per me, siciliano di nascita, c’è anche la pasticceria tipica con i frutti di pasta reale, ossia marzapane o “martorana” (il convento di Palermo di cui era specialità), con tutti quei colori caldi ed allegri, ed il gusto di mandorla che resta in gola tutto il giorno.

Già, in Sicilia si regalavano a Ognissanti, insieme con giocattoli e altri doni, non a Natale come qui al Nord. E in Puglia a San Nicola, il 6 dicembre. Poi con l’abbondanza del boom degli anni ‘60 si è moltiplicato tutto, ogni festa era buona per far regali ai bambini, le famiglie se lo potevano finalmente permettere e tra novembre e dicembre il freddo dell’inverno era combattuto e mitigato dal clima festoso ricorrente, e dolci e giocattoli si ripetevano fino al presepe e all’albero di natale, e poi alla calza della befana, tra luccichii di decorazioni, cenoni, fuochi d’artificio.

Sì, questa è sempre stata la nostra tradizione, vivida calda e accogliente, così diversa e lontana da quella inquietante e orrida dei popoli germano-anglofoni, volgarizzata commercialmente e resa più glaciale dal virus massmediatico d’Oltreoceano, che ce l’ha portata in casa. La nostra solare affettuosità mediterranea contro le loro notturne paure celtiche, che angosciosamente cercano di volgersi in sghignazzo, scherno e schiamazzi.

E poi, da noi, la festosità dei Santi sa creare il giusto clima consolante per i riti di preghiera, memoria dolorosa ma amorevole per i nostri morti, tutt’altra cosa dal paganesimo strisciante ed oscuro di Halloween. Tant’è che anche da parte ecclesiastica non sono mancate negli ultimi anni – con buonissime ragioni – le critiche, discrete ma ricorrenti, ai nuovi pseudo-culti delle zucche illuminate e degli scheletri in cammino.

Certo, il radicamento talora esitante ma ormai solido della cultura post-conciliare e dello spirito ecumenico non consentiva toni polemici, ma imponeva argomentazioni colte e sottili, fatte per accenni e senza imposizioni, magari sulla stampa di più alto profilo.

Niente a che fare con certe vecchie contestazioni curiali sul persistente conflitto tra paganesimo e cristianesimo in punto di feste, come quella che a metà Novecento incuriosì a tal punto il grande antropologo francese Claude Levi-Strauss (1908-2009) da indurlo a pubblicare un folgorante saggio, che mi sono ritrovato tra le mani scorrendo la libreria di casa: Babbo Natale suppliziato. Sta nell’aureo libretto Einaudi del 1967 “Razza, storia e altri studi di antropologia”, dove ci si occupa anche di fenomeni antropologici non primitivi, bensì contemporanei e nei centri pulsanti della modernità. Ancora conturbato dall’effetto-Halloween e stante ormai – vedi i negozi – l’imminenza natalizia, l’ho ripercorso, con qualche stimolante sorpresa.

L’episodio era apparentemente irrilevante, ma era esploso a quel tempo sui giornali francesi, in particolare su France Soir del 24 dicembre 1951: “Babbo Natale è stato impiccato ieri pomeriggio alle grate della cattedrale di Digione e bruciato pubblicamente sul sagrato” perché il clero digionese “aveva condannato Babbo Natale come usurpatore ed eretico. L’accusa rivoltagli era di paganizzare la festa del Natale, e di essersi insediato in essa come un cuculo occupandovi sempre maggiore posto” a spese del presepe.

Levi-Strauss ne prende spunto non per banali contumelie di critica anticlericale – pur consuete in Francia, dalla Rivoluzione in poi – quanto per illustrare l’intrico semantico che si è depositato nei secoli, ed anzi nei millenni, in ciò che chiamiamo “tradizione” e che in realtà è un fenomeno complesso di costruzione sociale, in un mix di conscio ed inconscio, spontaneità e intenzione, sentimenti profondi e calcoli di utilità.

Babbo Natale è certo la moderna versione euro-latina dell’americano Santa Claus, codificato negli anni Trenta in USA dalla Coca Cola come testimonial delle sue campagne promozionali, vero e proprio “dio delle merci” nei tratti di un vecchio bonario dalla veste scarlatta. Ma tuttavia deriva – attraverso la trasformazione germanico-olandese del nome di Sanctus Nicolaus, esportata in Nord America dalle emigrazioni del XVII secolo – nient’altro e niente meno che da San Nicola, vescovo di Myra in Licia (oggi Turchia).

Personaggio storico del IV secolo d.C., il suo culto assunse rilievo in Oriente nel VI secolo, e in Occidente dal IX secolo in poi: Roma e Italia meridionale (reliquie d’ossa, trafugate nel 1087, lo portarono a Bari), ma anche Germania, Francia e poi Inghilterra. La fama di infinita carità e generosità gratuita, di cui aveva goduto in vita, ne avrebbero definito il mito fondativo come “portatore di doni” ed emblema d’abbondanza.

Il culto reinterpretava un sostrato di religiosità pagana, cristallizzato nelle feste collegate al solstizio d’inverno dell’antica Roma, presiedute da Saturno, da cui: Saturnalia. L’insediamento graduale del Cristianesimo nell’Impero Romano avvenne soppiantando le credenze pagane, ma non senza compromessi di inculturazione nelle plebi dell’epoca: dal culto dei santi alla celebrazione dei riti natalizi, ribattezzando e reinterpretando le feste, che esorcizzavano la paura invernale della fine della luce/vita con la speranza/certezza nell’imminente rinascita, che avrebbe portato a primavera.

Il percorso dalla morte alla vita era rivisitato catarticamente nel culto della morte-rinascita simbolica del Sole, che l’imperatore Aureliano nel III secolo aveva fissato al 25 dicembre; seguivano le feste in onore del dio Giano e della dea Strena, durante le quali era usuale scambiarsi i doni, le strenne di cui parliamo ancor oggi. Per contrastare e riassorbire il paganesimo popolare, la Chiesa romana rimpiazzò quelle feste col Natale di Gesù, dono di Dio per noi, di fatto però perpetuandone il senso culturale profondo: dentro speranza ed esultanza per la nuova nascita, è immanente il suo contrario, l’angoscia per la morte incombente, in un legame inestricabile che nell’ottica religiosa solo la fede può salvare. Così è da allora sino a noi: drammatica vittoria della vita sulla morte.

Ma il Natale non era una gioiosa festa per bambini? Appunto: che il passaggio dalla morte alla vita sia drammatico, è dimostrato dal fatto che a ricevere i doni sono propriamente i bambini, coloro che pure dovrebbero, in sé, costituire un emblema di continuità della vita al di là della morte. Levi-Strauss insinua una chiave interpretativa scioccante: a ricevere i doni sono i bambini perché rappresentano i morti, quindi la Morte, la cui minacciosa incombenza si vuole coi doni ammansire, placare, saziare… Le culture arcaiche non conoscono le nostre stucchevoli carinerie sui bambini: i bambini rappresentano i morti, quindi la Morte stessa, perché nelle culture arcaiche sono – come i morti – i “non uomini”, ossia gli estranei alla società adulta, i “non iniziati”, quindi – diremmo noi – le “non persone”.

I morti non sono più persone, i bambini non lo sono ancora, quindi gli uni sono assimilabili agli altri, gli uni come gli altri sono incomprensibili e minacciosi per la “società dei viventi”, gli uni vanno esorcizzati attraverso gli altri. Come? Attraverso i doni, con i quali il donatore ottiene una strategica posizione di vantaggio rispetto al ricevente: lo mette “in obbligo” di ricambio, costringe il ricevente a ricambiare con i benefici che meglio si confanno al donatore, ossia la Vita. Non farlo morire a sua volta ma farlo restare in vita.

Quindi Babbo Natale non è così opposto al senso cristiano del Natale, non solo perché deriva storicamente – seppure con gli adattamenti venali del consumismo – dal San Nicola cristiano “portatore di doni”, ma soprattutto perché risponde simbolicamente a quelle stesse istanze di vittoria della vita sulla morte che il Santo Natale riprende dalle tradizioni arcaiche e glorifica con il lieto annuncio del Vangelo.

Ma che c’entra Babbo Natale con Halloween? C’entra, è un unico percorso simbolico. Se pensiamo sia alle tradizioni settentrionali sia soprattutto a quelle del Sud Italia, Ognissanti – e quindi Halloween – invera il senso antropologico-culturale del Natale, in modo sorprendentemente scoperto. In origine, al Sud i regali si portano ai bambini non per Natale ma per Ognissanti, cioè per le feste dei morti: si danno regali ai Bambini-Morti-che-camminano! È come un sogno-incubo collettivo ad occhi aperti, mascherato da festa, il cui significato inconscio è però totalmente, letteralmente, scioccantemente manifesto.

A ben vedere, forse la nostra tradizione italica, apparentemente così gioiosa e solare, è più notturna e horror di quella germano-anglofona in genere, e nordamericana in specie: per Halloween sono i Bambini-Morti-che-camminano a doverci insidiare con la questua di dolcetto/scherzetto, per Ognissanti (e per Natale) sono gli adulti di loro stessa iniziativa ad anticipare i Bambini con dolci e regali. In USA sono solo più insolenti, ma ad aver più paura siamo noi.

E giovani e adulti americani che si travestono da scheletri, spettri e fantasmi per superare la Morte rappresentandola, interpretandola per liberarsene, per andare dialetticamente oltre, sono – forse – meno materialisticamente ferini di noi mediterranei, che dei morti mangiamo le ossa e la carne-pane con i nostri deliziosi dolci novembrini. Noi che con un simbolico pasto, di antico sentore cannibalico, sentiamo inconsciamente di appropriarci della loro forza, facendola così scomparire come opposta a noi, nemica, minacciosa, e procurandoci la vita con la vittoria sanguinosa sulla morte, sempre dialetticamente superata ma con quanta innocente brutalità sotto il velo zuccheroso dei dolcini!

Ripensandoci, devo emendare il mio odio per Halloween, almeno derubricarlo a stizzosa antipatia. Continuando ad amare Ognissanti e Natale, sopra ogni cosa.

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