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Attualità

NEL RICORDO DI LIDIA

MANIGLIO BOTTI - 07/01/2012

Nel ricordo di Lidia Macchi, la giovane varesina trovata uccisa il 7 gennaio 1987  nella boscaglia di Caravate, ripubblichiamo l’articolo che RMFonline le aveva dedicato qualche tempo fa.

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Chi fa visita al cimitero di Casbeno e di Bobbiate, entrando dall’ingresso principale, a ridosso della strada, percorsa una decina di metri si trova sulla destra la tomba in cui riposa Lidia Macchi. È sempre ornata di rose. Sul marmo c’è la foto che tante volte abbiamo visto pubblicata: il bel volto di Lidia aperto in un mite e triste sorriso, i riccioli neri sulla fronte, un filo di perle bianche intorno al collo.

Lidia Macchi, quando morì, aveva ventuno anni. Di Casbeno, studentessa del terzo anno di legge, fu trovata uccisa, trafitta da ventinove coltellate, la mattina di mercoledì 7 gennaio 1987 in una radura sulla collina detta del Sass Pinì, a Caravate, a poche centinaia di metri di distanza in linea d’aria dal cementificio. Due sere prima, i suoi famigliari erano venuti in Prealpina per segnalarne la scomparsa: la vigilia dell’Epifania Lidia era andata a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio e non era più tornata a casa. Nelle ricerche, insieme con i famigliari e con le forze dell’ordine, per un giorno e mezzo, si impegnarono i molti amici: gli scout, di cui Lidia era una guida, i compagni del movimento di Comunione e liberazione.

Insieme con il collega Gianni Spartà, cronista giudiziario, in quel periodo di feste d’inizio d’anno, ero presente al giornale. Gianni si occupava delle cronache cittadine e io della provincia. E fu Gianni, verso il mezzogiorno del mercoledì – all’epoca si lavorava la notte fino a tardi – a chiamarmi al telefono per dirmi che la giovane della quale avevamo annunciato la scomparsa era stata ritrovata uccisa, trucidata da un assassino, dalle parti di Cittiglio.

Da quel giorno Gianni avrebbe seguito l’evolversi delle indagini sul delitto, forse il più truce accaduto nel dopoguerra varesino, ma infine rimasto insoluto. L’inchiesta, condotta dal sostituto procuratore della Repubblica di Varese Agostino Abate, portò a sviluppi inaspettati e clamorosi: fu scandagliato a lungo il mondo di Cl e degli amici, venne più volte interrogato un sacerdote della basilica di San Vittore. Del fatto, purtroppo con qualche concessione allo show, si parlò anche alla Tv nazionale; e se ne discute ancora oggi.

Il giorno del ritrovamento del povero corpo martoriato della giovane ne scrissi anch’io. Andai a sentire gli amici con i quali, nel periodo di Capodanno, Lidia aveva trascorso un breve periodo di vacanza e di meditazione ad Assisi e, nel tardo pomeriggio di quel mercoledì, assistetti nella chiesetta della Motta, piena all’inverosimile, a una prima messa di suffragio. Fu una sorta di doloroso pellegrinaggio. Perché Lidia era molto conosciuta, stimata e amata. Non era facile trovare qualcuno che avesse voglia e tempo da dedicare ai giornalisti. Ma grande era anche il disagio e lo sgomento di noi cronisti, già padri di famiglia.

Il sabato successivo mi occupai dei funerali, che si svolsero in San Vittore. Era un giorno freddo e cadeva neve mista a pioggia. C’era tanta gente: la chiesa principale della città non era riuscita a contenere la folla e si stava a fatica anche sul sagrato e nella piazza, stretti tra centinaia e centinaia di ombrelli aperti.

Alcuni giorni più tardi scrissi ancora un articolo sul caso di Lidia Macchi: insieme con il fotografo del giornale Guerrino Morandi – il famoso Blitz – mi recai al parcheggio dell’ospedale di Cittiglio, dove Lidia la sera della vigilia dell’Epifania aveva lasciato la sua Panda. Da lì, alle nove di sera, cronometrando il percorso, salimmo alla radura del Sass Pinì. Trovammo il passaggio a livello delle Nord libero e impiegammo meno di dieci minuti. Entrambi ricavammo l’impressione che chiunque avesse ucciso la ragazza e poi ne avesse eventualmente trasportato lassù il cadavere conosceva bene quei luoghi.

Difficile addentrarsi nei complicati meandri dell’indagine. Il sostituto procuratore Abate è un uomo preparato, ostinato, con una totale dedizione al dovere e allo Stato; e anche lui è un padre di famiglia: se solo avesse trovato una prova, una traccia non flebile, l’avrebbe seguita fino in fondo. Tuttavia, non si riuscì a scoprire l’assassino. Anche se il fascicolo – è chiaro – è sempre rimasto aperto. Parlando con gli amici, molte volte m’è capitato di dire come faccia l’assassino di Lidia – ammesso che sia ancora tra noi – ad addormentarsi la sera. Forse, il rimorso, il tormento della coscienza sono una pena ancora più dura di quella che possono infliggere gli uomini.

All’epoca del delitto, conoscevo di vista Giorgio Macchi, il papà di Lidia. Faceva il geometra alla società dei telefoni, più grande di me di qualche anno. L’ho ritrovato qualche anno dopo a Rimini, a un Meeting dell’amicizia. Dopo la morte della figlia, nel ricordo di lei, si era impegnato nella costruzione di un centro giovanile nella parrocchia di Mbuya a Kampala, in Uganda. Inoltre s’era fatto promotore di un’associazione per dare sostegno e solidarietà alle persone che hanno subito una tragedia in famiglia, una perdita grave e incommensurabile come la sua. La parola perdono – crediamo – spetta direttamente e soltanto alla vittima nei confronti del proprio carnefice, non ad altri. Però le risposte di un padre, di Giorgio Macchi, erano piene di significati.

Quando morì, qualcuno volle dipingere Lidia come una martire. In realtà era una ragazza normalissima, una giovane donna del suo tempo. Alcuni anni dopo venne pubblicato un libriccino di poesie di Lidia. Nell’introduzione, don Giulio Greco scrisse giustamente che quelle composizioni ricordavano il suo sorriso, confermavano la capacità da parte di Lidia di cantare la vita, tutta la vita, la gioia e il dolore, l’amore e la solitudine. Lidia, come tanti adolescenti, aveva un cuore gonfio di sensazioni, dove il finito e l’infinito, la religiosità e l’affanno quotidiano si scontrano e si confrontano.

Quando mi capita di entrare nel piccolo cimitero di Casbeno, mi fermo sempre un momento davanti alla sua tomba. Penso a chi potrebbe essere oggi quella bella ragazza dai capelli neri, il cui cammino finì una sera d’inverno di tanti anni fa. Lidia ora avrebbe quarantasei anni. Forse sarebbe un avvocato o, che so, un funzionario del Comune, una donna manager… Una brava e buona mamma.

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