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Società

LA POESIA PERDUTA

FELICE MAGNANI - 09/01/2015

poesiaC’è stato un tempo in cui lo studio delle poesie a memoria aveva un ruolo fondamentale nella nostra crescita umana e culturale. Le abbiamo imparate tutte o quasi, dai sonetti alle canzoni, dalle odi ai canti, abbiamo trascorso ore e ore a ripetere mentalmente o a voce quei versi stupendi che i nostri autori ci hanno, qualche volta molto faticosamente, regalato. Rivisto alla luce degli anni, quel lungo percorso lirico ci appare oggi con un pizzico di nostalgia: ci domandiamo come mai un tempo tutto filava via liscio come l’olio e anche le cose semplici sembravano ovvie o addirittura straordinarie, mentre ora diventa così difficile ripetere, ricordare, imparare a memoria un canto, una canzone o un verso, in modo tale che rimangano nel nostro animo per sempre.

Malgrado tutto c’è ancora una forte dose di nostalgia e può capitare che al culmine della dipendenza da immagine si spenga la televisione e si prenda tra le mani una vecchia antologia, con la voglia matta di leggere o declamare una bella poesia italiana, di quelle vissute e raccontate con amore dai nostri insegnanti di lettere nelle mattine d’inverno, quando seguivamo con lo sguardo la danza della neve, sempre prodiga di candore e di allegria dietro grandi finestroni “conventuali”. Ogni volta che riprendiamo tra le mani un canto di Leopardi o un’ode di Alessandro Manzoni, un sonetto di Giosuè Carducci o una bella poesia di Giovanni Pascoli è come fare un passo indietro per recuperare quell’amore d’infinito che tormentava la nostra voglia di sapere e di imparare. Ma cosa c’era veramente in quelle chilometriche poesie che ci facevano sognare? C’era prima di tutto la vocazione letteraria di docenti che vivevano nel profondo dell’animo la loro materia, che si immedesimavano e interagivano con gli autori, catturandone emozioni e sentimenti, commedie e tragedie, diventandone interpreti e cantori, come se la vita fosse un camino sempre acceso, pronto a riscaldare e a illuminare chiunque ne sentisse la necessità. Erano insegnanti nati e cresciuti a pane e latte, missionari del cuore e dell’esempio, con il senso del dovere stampato nel cuore, animati da un amore vero profondo per il sapere e le sue rivelazioni. Avevano il dono di un umanesimo capace di sorprendere e stupire sempre, anche quando la fatica suscitava varie forme di disapprovazione. Erano tempi in cui l’insegnante era rispettato e amato, aveva un ruolo fondamentale nella vita delle persone, era come un secondo padre capace di evincere e imprimere il senso recondito di una legge, di una regola, anche la più semplice e la più negletta. La sua voce sapeva cogliere l’attesa e la speranza di giovani alla scoperta del mondo e delle sue bellezze. Era una voce a volte ferma e decisa, a volte dolce e pacata, ma sempre orientata verso l’acquisizione di un modello di vita degno di essere vissuto. E poi guai a parlar male del professore, era una figura da rispettare e soprattutto da amare.

I giovani crescevano nello spirito di un’educazione familiare attenta e intransigente, dove il rispetto era il perno attorno al quale gravitava la forza della famiglia. Non era permesso fare il verso, simulare vizi e virtù, commentare senza una motivazione precisa, riversare fiumi di parolacce pensando di essere smagati o supermaturi, tutto viaggiava sull’onda di un esempio che nasceva prima di tutto in famiglia. La poesia armonizzava, creava i giusti equilibri sentimentali, apriva nuove vie di affetti ed emozioni, metteva in comunicazione la mente, il cuore, l’anima con l’ansia di infinito della natura umana, con la sua voglia di scoprire le gioie e le bellezze di un mondo dominato dai colori di un mistero che diventava amabile e protettivo, capace di mitigare le limitazioni del tempo, le conseguenze di cambiamenti improvvisi come la malattia, la morte, una menomazione. Nell’aria aleggiavano la poesia della giovinezza e quella della vecchiaia, le frasi amorevoli di una mamma innamorata dei propri figli, lo scudo protettivo di nonni capaci di trasformare l’amore in fraterna commistione di dolcezze. La casa era amata. Al suo interno si potevano incontrare la diversità, la democrazia, l’autorità, e perché no, qualche volta persino un po’ di solidale tirannia, giusto per rimettere in rima versi capaci di capovolgere l’armonia quotidiana del vivere. Era pur sempre poesia: poesia dell’essere umano, poesia dell’emozione filiale, poesia della fratellanza umana, poesia della regola scritta e parlata, di una legge imparziale, incapace di frodare la dignità della persona, poesia di affetti profondi, di parentele guidate dall’amore, poesia della collaborazione umana, della voglia di migliorarsi, di darsi una mano, di accogliere senza paura il viandante sbandato in cerca di refrigerio.

La poesia s’incontrava per strada nel cappello teso di un mendicante, nel rigore solidale di un vecchio prete che ti indicava una via da percorrere col sorriso sulle labbra, nell’amicizia, nell’impossibilità di raccontare bugie, di frodare la buona fede di un fratello in cerca di fede. S’imparava anche così ad amare Leopardi, Pascoli, Carducci, scoprendo nella vita comune il senso di una bellezza radicata e profonda, annidata nello spirito umano e pronta a saltar fuori con la genuina freschezza di un torrente d’alta montagna. Oggi la poesia sopravvive come stile narrativo, s’incarna saltuariamente nella psicologia umana, non sempre trova corrispondenze. Nella società dell’economia avanzata, dove il sistema delle banche domina lo scenario e dove la ricchezza è sinonimo d’impresa artigiana o industriale, la prosa ha preso il sopravvento. Così fra tragedie, abbandoni, suicidi, bancarotte e corruzione la bellezza del verso si dissolve, lasciando nell’aria uno strano sapore di bellezza perduta.

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