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Attualità

IL “GRANDE” ANTONIO

EDOARDO ZIN - 16/01/2015

s. antonioAntica spiritualità monastica e devozione popolare, animali e fuoco, malati e innamorati si intrecciano nella figura del “grande” Antonio. A lui i varesini dedicano il “falò della Motta” che viene acceso alla sera della vigilia della festa del Santo. Tra le fessure delle cataste di legna uomini e donne, anziani e giovani inseriscono bigliettini con messaggi per affidare al fuoco che sale verso il cielo richieste di protezione o ringraziamento o desideri o semplici auspici.

Gli antropologi ci spiegano che il fuoco è segno di liberazione: dai malanni, dal potere del maligno, dalla fine dell’inverno.

Più si sale verso nord, maggiormente si posticipa la data di accensione dei roghi: al sud si usa bruciare un pagliaccio la notte della Befana, salendo più a nord si brucia a Sant’Antonio perché ci si avvicina alla fine dell’inverno, nei paesi nordici i falò sfavillano la notte della vigilia di San Giovanni (24 giugno) per salutare la stagione inclemente che si allontana.

Nella liturgia cattolica, durante la veglia pasquale, si benedice il fuoco nuovo che vince le tenebre, riporta la luce nel mondo e il sacerdote urla che il Signore è risorto e le tenebre sono state vinte per sempre. E assieme a Dio rinasce l’uomo. Una nuova vita con principi e auspici nuovi.

A me piace pensare l’abba Antonio che, nelle notti diacce del deserto del Mar Rosso, dove egli visse nel III secolo, alla fine di una giornata di lavoro e di preghiera, è accanto ad una scoppiettante fiammata di legno di palma, ristoro ed elevazione per lui, così come nelle nostre case il camino acceso rallegra ed invita la famiglia a radunarsi attorno ad esso per stare assieme e conversare, tralasciando magari i frivoli spettacoli televisivi.

Da bambino, nelle fredde serate invernali, mi rifugiavo nella stalla dei contadini vicini per riscaldarmi e fare gli ultimi giochi della giornata.

Sulla vecchia porta della stalla era appesa un’immagine di Sant’Antonio, protettore degli animali. Era un’oleografia a colori sgargianti che il parroco distribuiva quando andava a benedire le stalle, il 3 gennaio, festa di san Bovo. La rivedo ancora quell’immagine: Antonio indossava un lungo mantello con cappuccio, aveva un’imponente barba bianca come la neve che di solito copriva la campagna il giorno della sua festa. Dal suo volto emanavano mansuetudine e bontà, impugnava un bastone, in un angolo ardeva un focherello. Sotto il suo braccio benedicente si raccoglieva una svariata e pittoresca famiglia di animali da cortile e da stalla che guardava incantata il suo protettore come per ascoltarlo.

Quell’immagine ormai scolorita dalla grassa umidità della stalla mi sarebbe ritornata alla memoria visitando musei e chiese, in occidente e in oriente. Solo allora scoprii che Antonio nel deserto subiva tentazioni da parte del demonio che si presentava a lui sotto forma di animali e che il monaco egiziano era invocato per sconfiggere una malattia della pelle frequentissima nei paesi del deserto egiziano.

Sul sagrato della Motta gli animali anche quest’anno si daranno convegno per ricevere la benedizione di chi li ha creati, come ha creato l’uomo, le piante, tutto il cosmo. Tra l’uomo e gli animali c’è un rapporto non paritario, ma nemmeno un rapporto tra soggetto ed oggetto: l’animale offre all’uomo cibo e servizio per le sue necessità e l’uomo ha bisogno dell’animale come aiuto, come presenza, come compagnia e consolazione, come compagno di viaggio.

Quando vediamo il nostro cane morire, un animale soffrire, il gatto che fa le fusa ai nostri piedi, i passeri che becchettano le briciole sul davanzale della finestra dobbiamo pensare che Dio si dà pensiero per essi, come per ogni essere vivente.

L’uomo non è il padrone del creato, non lo può soggiogare, non è lui il re. È solo in relazione con esso, con tutti gli esseri viventi, con gli animali.

Per descrivere il mondo degli ultimi tempi, Isaia invoca l’era messianica in cui il lupo dimorerà con l’agnello, la pantera si sveglierà accanto al capretto, il vitello e il leoncello pascoleranno assieme e un fanciullo li guiderà (Isaia.11,6). È vero. Il rapporto fiducioso con l’animale è uno dei segni del recupero e dell’anticipazione dell’armonia che ci sarà alla fine dei tempi. L’amicizia con gli animali è un valore, ma per approdare all’amicizia ci vuole il distacco da essi. L’uomo può godere della fedeltà del cane, dell’affetto del gatto, della velocità del cavallo, della pazienza dell’asino, della mitezza della colomba, della sobrietà del cammello, ma non deve dimenticare che con il costo di due scatole di cibo per gatti egli può salvare dalla fame un bimbo africano.

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