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Società

L’OFFESA E LA DIFESA

GIAMPAOLO COTTINI - 30/01/2015

papaLa sconvolgente strage terroristica di Parigi ha posto al mondo interrogativi così inquietanti da far pensare ad una vera quanto inedita dichiarazione di guerra dell’Islam contro l’Occidente. Al di là dei doverosi distinguo che si possono fare, all’interno della variegata galassia islamica, tra posizioni moderate e dialogiche che rifiutano il fanatismo integralistico e la scelta di arruolare giovani europei in un esercito addestrato alla guerra santa, siamo comunque in presenza di una situazione preoccupante, di fronte alla quale è essenziale recuperare adeguate chiavi di lettura per comprendere come rispondere.

Ci aiutano in ciò due spunti significativi: il primo ci è dato dalla conversazione di Papa Francesco con i giornalisti durante il suo recente viaggio in Asia, l’altro dalla celebre lezione che Benedetto XVI tenne nel 2006, nota come discorso di Ratisbona. Sono, evidentemente discorsi di diverso spessore, collocati in contesti molto diversi, ma che aiutano a mettere a fuoco due facce del problema, e cioè la necessità del rispetto verso il valore sacro di ogni religione (che nemmeno la libertà del diritto alla satira può distruggere né offendere) e la consapevolezza che nessuna forma di irrazionale e fanatica violenza che giunge ad uccidere può essere giustificata dal nome di Dio, che non deve mai essere strumentalizzato in termini ideologico-idolatrici per nessuna ragione.

Quando Papa Bergoglio usa l’esempio forte e ruvido che se qualcuno offende sua madre la sua reazione è di rispondere con un pugno, non fa un elogio della violenza contrapposta all’esigenza evangelica del perdono e del porgere l’altra guancia, ma dice solo che nessuno può permettersi di offendere ciò che l’io ha di più caro (in questo caso la mamma come simbolo del legame sacro alla vita stessa) e che nulla – nemmeno la libertà di pensiero o di satira – consente o può giustificare il dileggio di ciò che è così sacro e prezioso come Dio.

È ovvio che un istante dopo questa reazione viscerale, si impone la valutazione della proporzione tra l’offesa ricevuta e la reazione di difesa del valore cui si tiene; tuttavia non si può negare che c’è pure un diritto alla difesa di quanto giudichiamo sacro, perché la libertà di pensiero non può essere illimitata sino alla blasfemia e al diritto di satira contro tutto e tutti. La libertà di espressione diventerebbe così diritto all’oltraggio, fomentando come conseguenza quasi un diritto alla vendetta. Compito dello Stato è invece porre limiti e creare condizioni di sicurezza perché la libertà religiosa sia garantita a tutti e perché sia resa impossibile la violenza di imporre il proprio credo con la forza. Dallo storico “schiaffo di Anagni” al pugno di Bergoglio, il Papato non ha mai rinunciato ad una legittima difesa pur di salvaguardare la sacralità della coscienza come luogo del senso religioso in cui l’io si misura con Dio stesso.

Oggi però noi assistiamo anche alla rinascita della tentazione di voler imporre una fede religiosa con l’inammissibile violenza del terrorismo religioso, e su questo occorre ridire che imporre la fede con la violenza è contrario alla natura di Dio. È quanto diceva Benedetto XVI nel discorso di Ratisbona, quando, riportando un dialogo tra l’imperatore bizantino Manuele II Paleologo con un dotto persiano sul nesso Cristianesimo-Islam e sulla pretesa di diffondere convinzioni religiose attraverso la violenza, giungeva alla conclusione che “non agire secondo ragione è contrario alla natura di Dio”. Per questo la violenza religiosa, imponendosi alla ragione conduce solo a contraddire la natura di Dio. Ciò non significa che non esista il fanatismo religioso, ma certo lo distingue bene dal vero senso religioso perché introduce il confronto tra la fede ed il logos, quella ragione che anche Dio è costretto a riconoscere come fondamento universale. Un dialogo deve dunque muovere dalla Ragione, non dalla debolezza del buonismo o dall’ingenuità di un “pensiero debole”.

Occorre perciò ripartire da una cultura dell’incontro, consapevoli che le differenti culture hanno diversi modi di vivere le più importanti esperienze della vita (il nascere, il morire, il soffrire, l’amare, il lavorare, ecc.) e che è essenziale poter “narrare” come esse siano vissute nel rapporto dell’uomo con Dio.

Compito della società plurale è garantire il sostanziale diritto alla libertà religiosa, nella tutela del rispetto reciproco e nella difesa della dignità di tutti, ponendo alla libertà quei limiti che sono imposti dal rispetto di quell’intimità della coscienza personale in cui l’io “gioca” il suo personale rapporto con il volto di Dio: solo il riconoscimento del senso religioso può infatti tornare ad essere il comune alfabeto di un linguaggio comprensibile alla pluralità dei soggetti umani oggi così differenti eppure così globalizzati.

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