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Stili di Vita

REIMPARARE IL DESIDERIO

VALERIO CRUGNOLA - 06/03/2015

Ulisse e le sirene

Ulisse e le sirene

La potenziale confusione tra bisogno e desiderio, da cui ho preso le mosse, è ormai una mera questione terminologica. Nella vita reale riguarda solo una minoranza, non solo in Italia. Il 10% della popolazione ricca e il 20% della popolazione situata nelle fasce più alte della classe media conosce i desideri, ma ignora i bisogni. Il 40% della popolazione è così impoverito da non potersi permettere che minuscoli desideri, per lo più volti al consumo: circa la metà di questo gruppo non può più soddisfare bisogni fino a ieri considerati primari (un’alimentazione sana, un’abitazione decente, un’istruzione buona…), e circa un quarto vive in assoluta povertà. Solo il restante 30%, situato nelle fasce più basse del ceto medio, può ancora consentirsi di confondere desideri e bisogni. Ma potrebbero essere fenomeni contingenti, benché sia lecito essere scettici.

Radicato in modo difficilmente reversibile è invece l’accorciarsi della durata temporale e dell’estensione spaziale del desiderio. Esso si manifesta come una nuova confusione: tra desiderio ed estro, tra desiderio legato ad una mancanza e desiderio di abbondanza legata ad un vuoto esistenziale.

Altre volte è la noia a generare desideri futili: provo una mancanza, un vuoto, e preso dalla vertigine dell’indaffarato e dalla voglia d’incantamento, esco d’impulso a fare un giro in cerca di qualcosa. Finisce che mi compro l’ennesima cravatta. Vuoto scaccia vuoto, ma la cosa è lì: il suo esserci certifica per vero un pieno fasullo, patacca che svela il suo nulla appena varcate le casse. Il motore del consumismo ha il serbatoio vuoto. Ma subito la noia torna in agguato, più forte di prima. Il transitorio sostituisce il durevole, ma appunto transita e non dura.

Di estro vuoto così scrive Ernst Bloch: «Vorrei e non vorrei. Vogliamo qualcosa di cui non ci importa nulla e già ci siamo completamente dentro. All’altro sembra un capriccio, per noi probabilmente è vuoto. Benché scontenti, andiamo avanti, sembriamo incarnare quella maligna ostinazione. Infine si torna indietro miserabili, in rotta con se stessi. È così che attraggono le cose a cui si è presa l’abitudine e di cui non si può più fare a meno. Esse suscitano quei desideri insensati il cui adempimento non reca alcun piacere, mentre la loro frustrazione fa soffrire».

Proprio questo è il punto: non tolleriamo la frustrazione, attendere esaspera, per i beni di consumo e nelle relazioni umane. Amori, amicizie e affetti si bruciano in fretta. Tra i cacciatori di nuove opportunità l’intimità muore, o concerne solo i corpi. Quando sorgono, i progetti durano poco.

In questo modo il desiderio, nella sua autenticità positiva – la costruzione di futuro – viene ucciso. Ci resta la facoltà di obbedire a impulsi colonizzati e conformati dal mercato, sempre in agguato per prima anticipare e poi indurre le nostre richieste. Prefigurato e distorto dalla mitologica «mano invisibile», il futuro svanisce.

Il differimento del desiderio, così come dei progetti di vita – sempre più difficilmente perseguibili da chi ha meno di 40 anni, almeno da noi – non è solo vissuto come un ostacolo davanti a un edonismo che cerca soddisfazioni più prossime e di corto raggio, ma anche davanti a una drammatica perdita del futuro. Senza futuro, senza attesa non sono possibili né desideri né progetti, al più i cosiddetti «sogni nel cassetto», l’azzardo di un «gratta e vinci» o la dolorosa decisione di andare altrove, dove qualche futuro sembri ancora, se non a portata di mano, almeno possibile. L’immaginazione si è estinta. Forse per questo i desideri a corto raggio conquistano tanto spazio: è un vuoto che attira il pieno, anche se il pieno, stringi stringi, è esso stesso vuoto. Ma almeno non lo si percepisce, e si tira avanti. La routine ci rinsecchisce e intristisce, scolora ogni cosa, ci radica al suolo come piante sterili, in balìa degli automatismi del sopravvivere.

Vi è un ulteriore aspetto che in parte contraddice gli altri, perché il desiderio è per sua natura contraddittorio. Quando desideri e progetti di lunga lena sono giunti al loro approdo, subentra un vuoto che depotenzia o azzera ogni ulteriore aspettativa e progetto, se non quello di conservarsi nello stato raggiunto. Se poi essi sono stati condivisi, spesso si scava un distanziamento che prelude alla fine della pienezza della condivisione, se non di quanto è già stato ottenuto insieme. Né Omero né altri dopo di lui hanno narrato la vita di Ulisse e Penelope una volta ricongiunti: «E vissero a lungo felici e contenti», che altro dire ancora? A chi potrebbe interessare un Ulisse che in ciabatte passeggia su una spiaggia di Itaca in preda alla nostalgia, ma che dopo cena si addormenta davanti al camino nel megaron mentre Penelope, ostinata, seguita a tessere qualcosa perché non sa che altro fare? Interesserebbe di più Telemaco che se ne parte in cerca d’avventura, magari mosso da un complesso di inferiorità e di imitazione del padre. In quelle occasioni, scrive sempre Bloch, «tutt’al più può venire in aiuto l’abitudine, come una droga leggera, che si stenta a riconoscere per tale». Il senso del desiderio si conferma riposto non nel conseguimento del suo oggetto, ma nel suo tenace, spesso struggente perseguimento. Né gli incantesimi di Circe né la fresca dolcezza di Nausicaa poterono trattenere Ulisse.

La scomparsa della durata nella formazione e nello sforzo attuativo del desiderio si lega a quella dell’etica del sacrificio in vista di beni futuri più grandi in cui Weber vide l’originaria spinta propulsiva del capitalismo. E ciò a detrimento del ruolo storico del capitalismo, i cui immensi appetiti a brevissimo raggio sono quasi sempre ciechi e devastanti. Freud attribuì il disagio della civiltà a questa necessità di differimento e controllo pulsionale. Oggi viviamo lo stesso disagio, forse persino peggiore, perché non sappiamo differire e, con la crisi di Edipo ben descritta da Recalcati, abbiamo reso sempre più lasche le redini del controllo. Differire equivale nei sentimenti comuni a preparare una probabile delusione. Temiamo che il desiderio ci conduca presto ad un blocco interiore o all’amara esperienza dell’irrealizzazione. Spesso ci blocchiamo ancor prima di muovere i primi passi per intraprendere il progetto, o alla prima battuta d’arresto.

Dobbiamo reimparare a desiderare, a mantenere vivo lo stato di attesa, il legame tra il presente e la fluidità del divenire, del cui destino l’età adulta ci vede responsabili anche entro un’inevitabile catena di interdipendenze. L’homo desiderans è vitale, immagina e produce futuro, lo prefigura in origine in utopie a sua propria misura ma positive e confluenti nei ruscelli, poi nei torrenti e ancora nei fiumi e infine nei mari dei progetti collettivi, condivisi, come potrebbe accadere nella nostra città, dove non siamo in pochi a desiderare un suo riscatto dal declino, dal degrado e dalla decadenza cui è stata condotta. Dobbiamo dunque tornare soprattutto a saper desiderare insieme, e possibilmente entro orizzonti che non siano campicelli o mere dimensioni private.

Abbiamo bisogno di ritrovare desideri onesti, trasparenti, misurati, semplici, senza confonderli con le ambizioni: desideri che suscitino letizia, gioia di vivere; desideri costruttivi, che stimolino a spendere bene la vita. Dovremmo imparare a fare un buon uso del tempo libero, per dedicarci a ciò che davvero ci piace, valorizza e gratifica. Emancipati dall’ansia del possesso, potremmo orientarci sull’imparare, costruire e abitare la condivisione come ricchezza che espande i nostri confini. Dovremmo soprattutto potenziare il desiderio degli altri, degli affetti, delle amicizie, delle relazioni autentiche e della solidarietà diretta, e quello dell’impegno per qualche causa buona, possibilmente piccola, controllabile, non avvelenata da ideologie o asservita ad appartenenze. Dovremmo avvicinare l’altro, chi è diverso da noi, se desideriamo dei beni interiori, ignorando il celebre detto di un illetterato filosofo di Gemonio: «Chi si somiglia si piglia». L’altro è una figura psichica essenziale, che tendiamo a cancellare, a temere anziché renderla amica, opaca anziché riconoscibile, mezzo anziché come fine, oggetto di curiosità e non di incontro.

Infine, dovremmo coltivare il desiderio di conoscere e indagare noi stessi, di prenderci cura di noi, se possibile scavando anche nel profondo più melmoso e nel quasi inaccessibile. E magari, per chi lo sente, dovremmo assecondare il bisogno di trascendenza, o anche solo di trascendimento. Ma di questi ultimi due aspetti dirò più a fondo nei prossimi articoli.

4-continua

 

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