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Stili di Vita

GIOCARE ALLA FELICITÀ

VALERIO CRUGNOLA - 20/03/2015

Bernini, Estasi di Santa Teresa, Roma Santa Maria della Vittoria

Bernini, Estasi di Santa Teresa, Roma Santa Maria della Vittoria

La bellezza e l’utilità della filosofia consistono nell’insistere a interrogarsi su problemi che non sa risolvere o sui quali non raggiunge mai posizioni conclusive e concordi. Questa caratteristica sembra più sfumata quando prova a definire il desiderio di autotrascendimento a partire dal suo oggetto. Le religioni monoteistiche, il pensiero filosofico (in cui possiamo includere buddismo e confucianesimo) e altre manifestazioni della cultura, come le arti, contengono un bisogno di trascendimento che ha accompagnato, da un certo punto della scala evolutiva, gli uomini e le donne di ogni civiltà, incluse le attuali società secolarizzate quali la nostra. Ovviamente l’affermazione del Qohèlet (3,11), secondo la quale Dio avrebbe posto l’eternità nel cuore degli uomini, non è accettabile per chi considera le religioni una manifestazione della cultura. Come che sia, i vari indirizzi di pensiero sembrano focalizzarsi su tre temi tra loro assai prossimi: Dio, Bene, sapienza. La metafisica del desiderio è un libro perennemente incompiuto e a più mani.

La metafisica del desiderio di Dio narra ogni sua possibile rifrazione: il desiderio di averne ora una cognizione sapienziale, ora una contemplazione mistica, ora un godimento amoroso della presenza di Lui nella pienezza della sua essenza, talora al limite estremo dell’erotismo puro, come confessa nella sua autobiografia Teresa d’Avila e come in modo incomparabile ci mostra Bernini nella Cappella Cornaro di Santa Maria della Vittoria in Roma.

Per il cristianesimo, il desiderio di Dio è quello più libero dai bisogni e per questo il più puro. Ma per chi lo avverte è anche il più imperioso. Dal mondo tardo antico alle soglie dell’umanesimo, chi non lo avverte – e questo è il nocciolo retrostante ai vizi capitali – è distolto dalle dolcezze della vita terrena, dai vuoti della malinconia, dalle fragorose o ispide possessioni della psiche. Il desiderio di Dio può essere troppo blando, al punto da confondersi con un’aspirazione, o troppo grande, troppo imponderabile per riposare nelle nostre sole mani, e allora tende a confondersi con la speranza, fino a riporre la sua attuazione in una completa remissione all’oggetto del desiderio, attraverso la fede, la quale a propria volta, almeno in questo caso, somiglia ad un totale affidarsi più che ad un convincimento.

Paolo di Tarso fa di Dio la sola speranza possibile, condizione e insieme negazione di ogni altra speranza. Paradossalmente, essa confina con il desiderio della morte, di venire dissolto in Cristo, che trova il suo limite solo nella necessità dei credenti di conservarsi nella carne per compiere il proprio apostolato.

Agostino d’Ippona insiste su un tasto diverso: il desiderio è un percorso d’attesa, da uno stato di vuoto ad uno di pienezza, che tanto più cresce e s’affina quanto più ci rivela ciò di cui realmente manchiamo. «Il desiderio è il recesso più intimo del cuore. Quanto più il desiderio dilata il nostro cuore, tanto più diverremo capaci di accogliere Dio… Dio, con l’attesa, allarga il nostro desiderio, con il desiderio allarga l’anima e dilatandolo lo rende più capace. Viviamo dunque, fratelli, di desiderio, poiché dobbiamo essere riempiti».

La variante più densa e poetica è data dal percorso di ascesi, anche intellettuale, tracciato dal pensiero mistico. Una pratica di vita rigorosa spegne passo a passo ogni desiderio mondano per lasciare spazio al monopolio del desiderio di Dio, che ammutolisce ogni altro per dispiegarsi nel canto. In una preghiera attribuita a Francesco d’Assisi leggiamo: «Rapisca, ti prego, o Signore, / l’ardente e dolce forza del tuo cuore / la mente mia da tutte le cose che sono sotto il cielo, / perché io muoia per amor dell’amor tuo, come tu ti sei degnato morire per amor dell’amor mio». Il desiderio è anelito di una sorgente di vita o di luce, di ascolto e di silenzio. Leggiamo nel Salmo42: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, Dio». Già nella tradizione greca Dio si manifesta soprattutto come visione della luce; un’eco di questa tradizione si ha nella mistica sufi: Mevlana confessa il proprio «bisogno di un Amante» che «squarci con la sua luce i settecento veli del cielo». La tradizione cristiana incorporerà quella greca, ma vi aggiungerà una visione contemplativa meno impersonale: quella della voce che si fa Parola. Leggiamo nell’Apocalisse di Giovanni, I, 12: «Mi voltai per vedere la voce che parlava con me». Questa visione si completa con il silenzio di chi si pone in ascolto della Parola: Kierkegaard ci invita anzitutto a imparare a tacere, «come il giglio nel campo e l’uccello nel cielo».

Tommaso d’Aquino parla di un desiderio naturale di Dio da parte dell’uomo. «Niente di finito può quietare il desiderio dell’intelletto», una facoltà che, come la volizione, non si accontenta delle verità apprese e dei beni ottenuti, ma cerca una verità assoluta e un bene totale. La tensione dell’uomo verso l’infinito, la sua aspirazione alla perfezione e alla felicità pura non trovano però appagamento. Nella condizione finita in cui siamo, di viandanti verso un’altra vita, il desiderio non è proporzionato rispetto al suo infinito oggetto e si risolve in un’apertura verso Dio, che è insieme fede, speranza e carità, intesa come fiduciosa e speranzosa attesa del soccorrevole dono della sua grazia. La beatitudine (che è perfetta, dunque più ricca rispetto alla felicità) consiste nella visione di Dio, che a sua volta ne oltrepassa l’intellezione, alla quale l’uomo pure aspira grazie alla cooperazione tra intelletto e volontà.

È dubbio che il desiderio di Dio descritto da Tommaso sia naturale e diretto. Si può invece pensare che il cammino della cultura abbia strutturato in noi il desiderio della sua esistenza, del suo Essere per l’uomo, e che conduca perciò alla speranza più che alla fede. Il desiderio dell’Essere di Dio per l’uomo non suscita un convincimento così fermo da valicare i limiti della ragione, inclusa la ragione storica; in quanto unica possibilità di trascendimento della speranza rispetto alle cose finite, esso sarebbe il desiderio dell’amore di Lui per me, di una relazione amorosa interpersonale eterna, pura, gratuita e vicendevole, dove cioè anche Dio è oggetto della charis umana. Richiamando l’analogia instaurata da Agostino tra la fede del cristiano e quella del bambino nel seno materno che lo nutre, Julia Kristeva riconduce la fede a «un movimento di identificazione di tipo primario ad una istanza amorosa e protettiva». Tale identificazione offre all’individualità un fondamento stabile, originario e costituente. Plausibilmente il desiderio di Dio è anzitutto desiderio di una permanenza, di un sostegno amoroso che – diversamente da ogni relazione amorosa reale ed empiricamente sperimentabile – si dia come assoluto e perpetuo, al punto da varcare le soglie della mortalità e però anche personale e salvifico. Si tratta di un desiderio legittimo, del tutto indipendente dal credere o non credere in Dio, o specificamente nel Dio della tradizione cristiana e nella sua variante cattolica, e non meno legittimo anche ove Dio, in qualunque forma sia stato concepito nelle religioni monoteistiche, non esistesse affatto. Un desiderio che può accompagnare anche chi è laico, e che solo chi abbraccia la religione dell’ateismo, essendosi preventivamente assordato, può allontanare da se stesso.

Entro questo orizzonte «laico», può trovare posto il desiderio sapienziale del Bene. Contrariamente ai testi biblici, il pensiero greco respinge come irrazionale l’idea di un Dio personale, creatore e attento alle cose umane, e preferisce orientarsi verso la sapienzialità, verso un bene imperituro – una volta conquistato –, che per alcuni culminerebbe nella trascendenza del Bene. Per inciso, solo Spinoza ha associato chiaramente la sapienzialità all’immanenza di un Dio impersonale, là dove parla di un «amore intellettuale di Dio» come vertice di un’etica razionale.

Nel Simposio, Platone fa riportare a Socrate un celebre argomento sull’amore che gli fu suggerito da una donna, la sacerdotessa Diotima. Quello tra amore e conoscenza è un rapporto ascensionale, che per vari gradi intermedi conduce dalla conoscenza carnale, la forma più primitiva del desiderio di conoscenza, alla intuizione del Bene. Intuizione, non conoscenza razionale: nella Repubblica chi volge gli occhi al Bene ne viene accecato, come chi si volge al sole; il Bene, in sé invisibile, è la condizione perché ogni altro bene, ogni altro valore in sé e per sé, come ad esempio la giustizia, si rendano visibili. Riprendendo in chiave originale il platonismo, Plotino sviluppa una mistica dell’Uno, incentrata sull’annullarsi del molteplice nell’Uno, che implica per il sapiente una sorta di «morire al mondo» (e qui torniamo circolarmente alle radici della mistica cristiana da cui siamo partiti). Il luminoso abbandono alla contemplazione dell’Uno spegne tutti gli oggetti finiti del desiderio finito (agàlmata), e persino la nostra conoscenza del finito. «Grazie a questo abbandono, l’essere universale è presente. Finché si è distanti, esso non si manifesta. Ma non gli occorre avvicinarsi per essere presente; siamo noi che ci muoviamo verso di Lui, con un movimento che non è abbandono di dove siamo ma un essere già là, dove Lui è; perché stare dove Lui è, è colmare la distanza con la quale pensavamo di essercene allontanati».

Nella Critica della Ragion pura pratica, Kant riconosce come l’essere umano tenda ad una felicità profonda, globale e duratura, ossia al pieno e stabile appagamento di ogni nostro desiderio, di ogni nostra aspirazione, di ogni nostra inclinazione in estensione, in intensità e protensione. Sennonché questa felicità, costituita dal Sommo Bene, è inaccessibile benché ipotizzabile in via razionale, come è inaccessibile (e qui nemmeno ipotizzabile) una conoscenza puramente razionale di Dio. La vera felicità consiste nella speranza di rendersi degni di un’ipotetica felicità oltremondana con l’azione virtuosa e la santità della nostra vita. Kant ci invita ad agire come se il Sommo Bene fosse attingibile. Nell’etica kantiana, l’autonomia della volizione del bene da ogni movente non razionalmente puro esce rafforzata dalla speranza razionale in un «Regno dei fini».

Quanto a noi, o almeno a chi scrive, piace pensare che sia possibile agire come se la teoria kantiana, o anche solo questo suo aspetto, sia pienamente fondato. La filosofia è un gioco, ma quando il gioco si fa serio, chi pratica la filosofia come una risorsa per la serietà della propria vita non smette con questo di giocare.

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