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Editoriale

RINASCITA

EDOARDO ZIN - 27/03/2015

vegliaQuand’ero ragazzo, il silenzio si rompeva verso le undici del sabato santo, allorché d’improvviso le campane cominciavano a suonare. Allora mia madre correva verso la fontana e, con le mani a conca, raccoglieva un po’ d’acqua e veniva a bagnarmi gli occhi. L’acqua – diceva mia madre – avrebbe pulito le palpebre ancora bagnate di lacrime versate per la morte di Cristo e le avrebbe aperte alla vita nuova. Non sapeva di teologia mia madre. Mi tramandava quello che lei a sua volta aveva appreso da sua madre. Il Concilio non era ancora giunto con la sua ventata di innovazione abbracciata alla tradizione.

La riforma portata dal Concilio, infatti, indicando nella liturgia “la fonte e il culmine della vita cristiana” ha reso visibili i segni che conducono all’invisibile. Oggi si comprende meglio che l’acqua è la stessa che nel battesimo rigenera a vita nuova facendo passare l’uomo dal peccato alla vita di grazia.

Le campane a quei tempi venivano legate il giovedì precedente, in segno di lutto per la morte del Salvatore e, per tre giorni, restavano mute, proprio esse che ritmavano la vita e le opere di ogni giorno.

Al sabato santo tutto doveva risorgere a vita nuova: i contadini legavano con vimini o spaghi le piante da frutta perché in quel modo si sarebbero avuti non solo fiori, ma frutti abbondanti; negli orti si spargevano le sementi; nell’aria si spandeva l’odore di pulito del bucato di tutto l’anno; le giovani mamme sfasciavano e facevano fare i primi passi ai bambini che ancora non camminavano, come Gesù sfasciò Lazzaro dalle bende del sudario perché risorgesse a vita nuova.

Era tutta una rinascita, un risveglio. La vita risorgeva ovunque: bastava saper vedere e saper capire e scoprivamo il richiamo più forte, l’affermazione più tangibile dell’esistenza e dell’amore di Dio. C’era una felice corrispondenza tra il fresco, mattinale vigore primaverile della natura e la vittoria liturgica della vita sulla morte: la terra, indurita dal gelo invernale, regalava i primi germi, il seme rompeva l’involucro, la linfa saliva.

La Chiesa, oggi, seguendo la pedagogia dell’anno liturgico tutta centrata sulla Pasqua, indica in Cristo il modello dell’uomo nuovo che muore al peccato per risorgere a vita nuova.

Le usanze di una cristianità sacralizzata sono state rese più umanizzate, più comprensibili all’uomo moderno. Purificate le usanze dal sacralismo fine a se stesso, i simboli manifestano la fede.

Gli elementi essenziali della vita – terra, fuoco, aria, acqua – non vengono più esorcizzati come un tempo. Oggi nella veglia pasquale il popolo di Dio affolla le chiese più di ieri. Le navate sono gremite di fedeli che si percepiscono nell’oscurità intensa e misteriosa. A ognuno viene dato un piccolo cero. Sul sagrato si accende il fuoco che perde il suo antico senso di terrore e diventa simbolo vivo della nuova vita.

Da ragazzi, il mio vecchio parroco ci mandava a cercare una selce lungo le rive del fiume e c’invitava a portargli un pezzo di ferro: la selce simboleggiava Cristo, il ferro, col suo aspro e violento contatto, la croce e il sacrificio, la scintilla che ne scaturiva la salvezza di Cristo.

Dal fuoco acceso sul sagrato – e a Parigi, sul sagrato di Notre Dame, l’arcivescovo Lustiger lo voleva alto come un rogo di liberazione – si accende il cero e la sua fiamma passa di mano in mano per accendere la fiammella che ogni fedele tiene in mano: è il fratello che offre a chi gli sta vicino il fuoco dell’amore per rimuovere paure, tremori, preoccupazioni.

Quando nella Chiesa saranno accese tutte le luci, le navate rifulgeranno in tutto il loro splendore e, davanti al cero, il diacono intonerà un canto d’esultanza perché la luce è ritornata e ha vinto sulle tenebre.

A tutto il mondo sarà proclamato che “Cristo Signore è risorto”. Le campane suoneranno a festa. Alla gioia per la resurrezione di Cristo si assocerà quella della resurrezione interiore della colpa, condizione prima per riscattare il mondo dalla povertà, dalla miseria, dal bisogno, dalla disoccupazione, dalla persecuzione, dall’ingiustizia, dalla corruzione.

Sarà benedetta l’acqua e con essa saranno battezzati i catecumeni che durante la quaresima si sono preparati nella nostra chiesa ambrosiana ad affrontare il male come Gesù nel deserto, ad aprire il loro cuore alla fede come fece la Samaritana, ad inserirsi nel popolo di Dio formato dai discendenti di Abramo, a fuggire le tenere del peccato e a vedere la luce come il cieco nato, a morire e a risorgere con Cristo come Lazzaro.

Il fuoco che s’accende illumina e riscalda, l’acqua che lava e purifica, la terra che diventa grembo di nuova vita, l’aria che si respira assurgono a metafora della condizione nella quale si trova l’uomo in questi anni di crisi economica, politica, sociale e culturale: con la resurrezione di Cristo torna la speranza.

Ancora oggi, come nei primi secoli, i cristiani sono “coloro che non hanno paura” né della fine (della civiltà occidentale, della modernità, della cristianità) né della precarietà del presente, né dell’incertezza del futuro, né dell’imprevedibile… Sono chiamati i cristiani a rendere il mondo “pasquale” cioè più vivibile e a far “fare Pasqua” alle realtà terrene: alla politica che deve passare da mestiere a servizio, all’economia che da “fabbrica di danaro” deve divenire dispensatrice di lavoro, allo sport che da affare deve ritornare ad essere sano divertimento, al lavoro che da punto di arrivo deve diventare punto di partenza per mettere a servizio degli altri le proprie competenze.

Dopo la Pasqua, non ci sarà alcuna condizione umana o realtà terrestre che non potrà essere salvata dalle energie del Risorto.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di vedere attorno a noi questi segni.

 

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