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Opinioni

EXIT LUPUS

FRANCESCO SPATOLA - 27/03/2015

lupiLa recente vicenda della sostituzione del dimissionario Maurizio Lupi al ministero dei Lavori pubblici e trasporti ha riportato in auge – al di là del caso specifico – il tema più generale della preferenza per un tecnico o un politico al vertice dei ruoli di governo. La stagione dei tecnici, fondamentali nel governo Monti e determinanti nel governo Letta a ripetere i fasti della fase finale della Prima Repubblica a inizio anni ‘90 (governi Dini e Ciampi), sembra ormai definitivamente conclusa, non solo per la rivendicazione di una autonomia alta della politica da parte del premier Renzi, ma anche e particolarmente perché nell’opinione pubblica, sia dei mass-media sia popolare, i tecnici al potere non sono più sinonimo di competenza, efficienza e imparzialità in opposizione al malgoverno, ai privilegi di casta e alla corruzione dei politici.

Anzi, proprio l’indagine giudiziaria della Procura di Firenze, che dall’alta velocità toscana si estende al sistema degli appalti in tutt’Italia e mostra la coerenza corruttiva del complesso delle Grandi Opere italiane (MOSE, ricostruzione terremoti, G8, mondiali di nuoto, Expo, TAV ecc.), nel mettere politicamente in crisi Lupi e indurlo alle dimissioni ha contemporaneamente e soprattutto mostrato la dimensione strutturale e pervasiva della corruzione negli apparati tecnico-amministrativi dello Stato. A leggere la trascrizione delle telefonate intercettate, col ministro Lupi che sembrava essere un dipendente in ginocchio dal vero Grande Capo, il direttore generale Incalza formalmente a lui subordinato, è parsa evidente l’impotenza dei politici e la soverchiante iperpotenza dei burosauri ministeriali, i “tecnici” appunto. Un sentimento di pena e commiserazione sembra quasi emergere nei confronti dei politici, sino a ieri causa di tutti i mali della povera Italia, ma oggi burattini nelle mani dei manovratori occulti, i veri margniffoni, i tecnici che non ci mettono la faccia ma solo le mani per “cucchiaiarsi” l’intera marmellata. E che sotto l’asettico aplomb ministeriale annegano nell’inefficienza e nello spreco, dato che le Grandi Opere italiane dell’ultimo quindicennio sono lievitate del 40% nei costi e sono giunte a conclusione nell’8,6% dei casi.

Ma allora, nel comune disastro, chi scegliere? Non ci si può fidare dei tecnici, non ci si fidava dei politici, dove andare a parare? Se per questa strada demolitoria non si va da nessuna parte e la crisi italiana – non solo economico-sociale, ma primariamente etico-culturale – risulta irrimediabile, allora forse l’errore sta nel far d’ogni erba un fascio, in un’opinione pubblica schematica e semplificatoria, alla ricerca di capri espiatori per comodità di generalizzazione e pigro fastidio per la complessità. A furia di concentrarsi sulle patologie si rischia di perdere i riferimenti sulla fisiologia dei ruoli, la sola via razionale alle decisioni efficaci; e ci si blocca, non riuscendo mai a creare le condizioni per risanare una situazione incancrenita.

Prescindendo quindi dalle degenerazioni, al governo è meglio un tecnico o un politico?

Per rispondere, la domanda va rielaborata: che cosa caratterizza e che cosa differenzia un politico da un tecnico? Un politico può permettersi di esercitare un ruolo di governo senza nessuna competenza? E un tecnico non deve preoccuparsi dell’esito ultimo del suo lavoro, se favorisce o meno il bene pubblico? È evidente che tra i due ruoli c’è un’area comune, in cui le particolarità devono incontrarsi e fondersi. Ma a partire dalle relative distinte specializzazioni: il tecnico è uno specialista della realizzazione, il politico è uno specialista della volontà; il primo sa “come” si deve fare e si concentra sui mezzi, il secondo sa “cosa” deve esser fatto e si concentra sui fini.

Il politico è selezionato dal consenso popolare, il tecnico dà prove di merito professionale. Il politico nasce e cresce nel partito, nelle relazioni con gli iscritti e con gli elettori, nei dibattiti pubblici e sui mass-media, e a loro deve render conto unitamente alla sua coscienza. Il tecnico attraversa i percorsi formativi, le prove concorsuali, le valutazioni prestazionali, le relazioni gerarchiche e di collaborazione, si crea una reputazione in base ai risultati professionali e, unitamente alla propria coscienza, risponde sia ai superiori sia ai beneficiari del suo lavoro, i cittadini utenti. Nel bene, quindi, il terreno comune tra politici e tecnici è il riferimento di coscienza al bene comune, agli interessi collettivi, alle esigenze dei cittadini: in modo diretto il politico, in modo mediato il tecnico. E il terreno comune c’è anche nel male, agli onori delle cronache nella patologia dei ruoli: sia il politico che il tecnico possono sottostare (corruzione) o provocare (concussione) le interferenze del malaffare.

Anziché vituperare o tifare per l’uno o per l’altro ruolo, si tratta allora di creare le condizioni che ne favoriscano la fisiologia e allontanino le patologie incombenti, sia nei processi di selezione che in quelli di controllo. In ambo i casi si tratta di condizioni “politiche” (ossia generali, di cura collettiva per il bene pubblico) di trasparenza e partecipazione democratica: dalla vivacità condivisa della vita di partito alla chiarezza dei meccanismi elettorali, al costante rendiconto agli elettori, al rigore delle procedure giudiziarie per i politici; dalla serietà attitudinale dei concorsi all’organizzazione funzionale e cooperativa del lavoro, alla responsabilizzazione dei centri di entrata e di spesa, alla semplicità ed incisività delle procedure amministrative, alla verifica sistematica della soddisfazione dell’utenza, e ancora al rigore delle procedure giudiziarie per i tecnici.

Non dimenticando il terreno comune: qualunque tecnico, quanto più elevata è la sua posizione nell’organizzazione, tanto più deve assumere sensibilità politica, ossia per gli interessi collettivi in gioco, sapendo rappresentare responsabilmente al politico possibilità, costi e benefici delle alternative decisionali in campo. Mentre qualunque politico, che si avvale dei tecnici per attuare le finalità che persegue, deve acquisire un patrimonio di conoscenze tecniche di base, che gli permettano di comprendere responsabilmente le alternative decisionali che il tecnico sottopone.

Quando poi toccasse a un tecnico svolgere ruoli di governo, non potrà che trasformarsi in politico: dal rappresentare le possibilità di scelta, dovrà passare a scegliere in prima persona, valutando a suo rischio e pericolo gli interessi in campo e calcolando responsabilmente e coraggiosamente il consenso che potrà creare o perdere in base alle scelte fatte. E stando attento a non incorrere nel rischio tipico del tecnico: affezionarsi alle alternative di soluzione che conosce meglio – per studi e/o esperienze professionali e/o relazioni personali – senza nemmeno prendere in considerazione altre alternative, che “giri” di relazioni e/o scuole di pensiero e/o professionali diverse dalla sua suggerirebbero. Se si mettesse un’archi-star (i vari Fuffas, secondo Crozza) a ministro dei lavori pubblici, dovrebbe guardarsi innanzitutto dai suoi colleghi, prima di essere sommerso dalle lobby.

Alla fine, meglio il politico “puro” o il tecnico? Meglio il politico “impuro”, nel senso di quello che parta da una competenza ed esperienza di base per andare oltre, per concentrarsi sulle esigenze dei cittadini e sulla loro partecipazione alla democrazia come stella polare della sua azione.

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