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Società

CONFLITTI A PALAZZO

FRANCESCO SPATOLA - 10/04/2015

Dopo tangentopoli Comune commissariato (dalla Prealpina del 16 settembre 1992)

Dopo tangentopoli Comune commissariato (dalla Prealpina del 16 settembre 1992)

A Varese come nel resto d’Italia, non servirà a nulla cambiare segno politico al Comune – neanche coi comitati civici – per cambiare davvero le cose, se non funzionerà il rapporto con i tecnici che devono realizzare il programma, vecchio o nuovo che sia. Me l’han dimostrato trentasei anni di servizio ed è questione del tutto e da tutti sottovalutata. Per questo serve rivisitare il percorso, altrimenti il fallimento è assicurato anche per le idee migliori del mondo.

“A m’arcord ”… Ho cominciato a lavorare in Comune di Varese a gennaio 1978, e sin dall’inizio la frase più frequente che mi sentivo ripetere era: “I politici passano, i funzionari restano”. Già, i funzionari; a quell’epoca formalmente non esistevano ancora i “dirigenti”, i responsabili di vertice dell’apparato comunale erano anch’essi “funzionari”, seppure di grado più elevato, ed erano pochi, quattro in tutto, a guidare i settori più grandi dell’organizzazione tecnico-amministrativa, contro una trentina di funzionari sub-apicali, che guidavano gli uffici minori. Ma erano già complicati i rapporti con i cosiddetti “amministratori”, cioè i politici: sindaco e assessori, una decina in tutto, i soli che contassero, mentre i quaranta consiglieri comunali erano considerati “chiacchiere e distintivo”, bla-bla-bla per riempire i verbali di seduta ma sostanzialmente ininfluenti; per non parlare dei consiglieri dell’opposizione. In quel bel contesto, la frase su chi dura di più era certamente consolatoria: i politici possono fare quel che vogliono, ma poi van via, non dovremo sopportarli più, alla fine – in fondo in fondo – vinceremo noi, i funzionari.

Ma “vincere” che cosa? Vincere il potere, il governo della città, il comandare sull’organizzazione comunale – centinaia e centinaia di dipendenti, un’azienda mediogrande – sulle risorse finanziarie disponibili (decine e decine di miliardi di lire) e sulle regole di comportamento collettivo (decine e decine di regolamenti e ordinanze) per decidere che cosa fare per la città e come farlo. Il rapporto difficile era infatti indice d’un conflitto latente, che raramente esplodeva e che in genere si declinava in forme variabili di alleanza: do ut des.

Agli amministratori, sindaco o assessori che fossero, era riconosciuto per principio il privilegio della discrezionalità al limite dell’arbitrio nel definire gli obiettivi, cioè le cose da fare: strade, scuole, lampioni, impianti sportivi, sfilate di carnevale, mostre di pittura, sensi unici e soste vietate, contributi alle associazioni… E le priorità nei tanti settori d’intervento: asfaltare o tappare le buche prima in un rione che nell’altro, fare all’una o all’altra villetta sparsa l’allaccio occasionalmente gratuito alla fognatura comunale, privilegiare i rapporti con l’una o l’altra associazione, organizzare l’una o l’altra manifestazione, estendere la rete d’illuminazione pubblica da una parte o dall’altra, localizzare qui o là l’uno o l’altro vincolo urbanistico, regolare in un modo o nell’altro la circolazione stradale e le aree di sosta… a seconda dell’elettorato di riferimento del singolo assessore, o magari del suo interesse particolare, o dei limiti della sua intelligenza e cultura, o del semplice capriccio.

Ai funzionari, invece, spettava in generale il contentino di sfruttare tutte le maglie della normativa sul lavoro pubblico per miglioramenti retributivi e benefici pratici, dagli straordinari a go-go alla facoltà di non timbrare il cartellino, alle ferie secondo calendari personalizzati, all’andare il giovedì pomeriggio al Tennis Club di piazzale Ippodromo per stare in forma, ecc… Ma per alcuni anche, e soprattutto, la facoltà d’insinuarsi nelle scelte politico-amministrative quotidiane per “contare”, per sfruttare la propria conoscenza tecnica facendo ritenere necessarie e inevitabili alcune scelte politiche in cui concorressero propri modi di vedere discutibili, o propri interessi o giri di amicizie. E comunque per molti l’orgoglio professionale, la sana sensazione di fare qualcosa di buono per la città, di essere importanti perché utili, di avere uno status di rilievo cittadino, un riconoscimento di autorevolezza e indispensabilità: se Varese va bene, è merito di noi tecnici; sottinteso, molto meno è merito dei politici. Il che, tuttavia, tendeva a esser vissuto dagli amministratori come disturbo, tracimazione, interferenza rispetto al governo dell’organizzazione comunale e della città: burocrati prevaricatori da tenere sotto controllo.

Come ogni potere, il potere organizzativo è un campo di forze interagenti e in equilibrio variabile: se una s’indebolisce e perde terreno, l’altra subito si rafforza, s’espande, invade il resto del campo. Così alla tendenza dei funzionari-top a sconfinare nella competenza politica faceva pendant l’interferenza degli amministratori sulle scelte tecniche. Anzi, ne era all’origine. Qualunque atto a rilevanza esterna era intestato a un amministratore, non solo le licenze edilizie ma perfino i certificati anagrafici erano firmati dal sindaco o dall’assessore delegato; e gli atti più complessi, come i progetti delle opere pubbliche e gli appalti, erano formalizzati con un atto collegiale della Giunta e firmati dall’Amministratore pertinente.

Ma quell’atto era stato davvero prodotto dall’amministratore? Neanche per sogno, era frutto dell’ufficio competente e solo il relativo funzionario-top era davvero in grado di capirlo, e di assumersene la responsabilità sostanziale, perché dipendeva da lui, dalla sua iniziativa e dal suo controllo, la filiera operativa da cui l’atto era stato prodotto. I tecnici espropriati dai politici si “vendicavano” per vie sotterranee, creando le condizioni perché la volontà politica s’indirizzasse dove gradivano loro, spesso in buona talora in cattiva fede, spesso per buone intenzioni (di cui è lastricato l’inferno) e talora per opachi interessi.

Le cose funzionavano se c’era un rapporto fiduciario tecnico-politico, ma facevano impantanare l’azione politico-amministrativa se la fiducia mancava, come era venuto a succedere sempre più frequentemente da metà anni Sessanta con l’ingresso del PSI in maggioranza e l’instaurarsi del centro-sinistra anche a livello locale. Il risultato era stato il moltiplicarsi delle consulenze esterne, specie in campo urbanistico, per aggirare – con la scusa dell’innalzamento della qualità tecnica – il timore d’inaffidabilità politica dei funzionari. Non s’era trattato, in principio, di banali tematiche corruttive o per far girare soldi pubblici agli amici di partito, ma più profondamente di sfiducia nella capacità dei funzionari, cresciuti con il vecchio regime della politica centrista, di sostenere tecnicamente e in modo adeguato le nuove politiche a favore dei ceti popolari: dalle problematiche dell’edilizia economica e popolare, al nuovo interventismo sociale e culturale che si chiedeva al Comune, al recupero delle periferie degradate, alla istituzionalizzazione e valorizzazione della partecipazione collettiva al governo cittadino, ecc.. Con connessi sospetti di frenate e boicottaggi.

Un delicato processo di adattamento, che attraversò anche gli anni Settanta e la stagione del compromesso storico, e portò in seno all’apparato tecnico-amministrativo comunale il primo (serio, troppo serio) tentativo di riorganizzazione con la consulenza dello Studio Ambrosetti, non ancora asceso agli onori di Cernobbio ma realmente “sul pezzo” nella natia Varese, anche nel focalizzare come cruciale la tematica tecnici-politici e del rapporto critico dei tecnici coi cittadini. Riorganizzazione in sostanza accantonata, salvo il formale cambiamento nominalistico dell’assetto organizzativo comunale e il passaggio da 4 settori a 10 aree (con proporzionale moltiplicazione dei funzionari apicali, mentre quelli sub-apicali salivano oltre i 40).

Finché con gli anni Ottanta, in concomitanza con l’ascesa di Craxi a livello nazionale e il patto con Andreotti e Forlani, una nuova generazione di politici rampanti si affermò anche a Varese con clamorose idee di Grandi Opere e solide pratiche tangentizie nel mix affari/politica, in grado di digerire e dissolvere ogni tematica innovativa – compresi il compromesso storico nazionale e il superamento della frammentazione democristiana degli interventi “a pioggia” con l’illuministica e onnisciente programmazione – per trasformarle in “inciuci” affaristici, fino all’ipotesi… delirante d’un Piano regolatore da 700.000 abitanti. Per attuarle il supporto dei funzionari era indispensabile, e al conflitto aperto – i funzionari visti come contropotere, da comprimere e/o con cui trattare – si alternò e poi sostituì il coinvolgimento partitocratico-corruttivo.

Non poteva che sboccare nella Tangentopoli varesina del 1992, quando – complementarmente all’arresto di sindaci, ex sindaci, assessori e consiglieri comunali dell’epoca – anche due capi area comunali finirono arrestati, e l’apparato tecnico-amministrativo del Comune di Varese riuscì a non risentirne, né in immagine né in sostanza, soprattutto grazie al carisma, all’intelligenza e al garbo istituzionale dell’irreprensibile segretario generale d’allora, che subito e con strategica discrezione convinse gli interessati ad andarsene in pensione anticipata, togliendo per tempo d’imbarazzo la tecnostruttura comunale.

Seguì la prima stagione di sperimentazione istituzionale con la giunta Fassa, sostenuta da una Lega che si proiettava quale “partito repubblicano di massa” senza xenofobia, con un PDS in cui sembravano inverarsi le speranze liberal e socialdemocratiche senza asfissie da buro-comunismo realizzato.

Insieme con l’innovazione politica si aprivano spiragli di innovazione tecnica, in concomitanza con le innovazioni istituzionali appena portate dalle Leggi Bassanini del 1990, la 142 sul nuovo assetto dei Comuni e la 241 sulla trasparenza degli enti locali e la partecipazione dei cittadini. Con la decisiva scelta di distinguere tra il potere di indirizzo e controllo degli organi politici e il potere di gestione degli organi tecnici, per dare corpo e sostanza ai quali si istituiva formalmente la dirigenza anche a livello comunale. Non più solo funzionari ma veri dirigenti, cambiava davvero qualcosa? Per i frutti concreti si sarebbe visto nel prosieguo, le fasi sperimentali non possono durare a lungo: Fassa si ritirò presto, per cedere il passo all’era Fumagalli. Il bello doveva venire.

(2 – continua)

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