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Politica

METODO DIAZ O METODO CADORNA?

FRANCESCO SPATOLA - 17/04/2015

L’ex sindaco Aldo Fumagalli

L’ex sindaco Aldo Fumagalli

“A m’arcord” ancora… Il 28 ottobre 2005, alla fine dell’era Fumagalli, quando restituivo al sindaco dimissionario il cartoncino di ringraziamento in busta-paga, graziosamente elargito ai dipendenti per “l’impegno profuso” durante il suo mandato.

“Se lo tenga il suo saluto, e lo metta dove pare a lei”, gli scrivevo dopo tre anni di traversie a dirigere i servizi sociali: l’ipocrisia finale m’era sembrata troppo, al culmine di otto anni di “frustate” (sic!) verso i “recalcitranti” (sic!), come il sindaco più borgomastro di tutti considerava dirigenti, funzionari e dipendenti, i “tecnici” che voleva “smuovere” a tutti i costi.

Episodio sintomatico e conclusivo d’un ciclo di peggioramento clamoroso del rapporto tecnici-politici nel Comune di Varese, di cui profittavo per replicare con un po’ di filologia storica alla filosofia spicciola di Fumagalli sulla gestione delle “risorse umane”: “Le segnalo nell’occasione una doverosa rettifica ad un proclama che lei mi fece anni fa quando dirigevo il personale: la sua teoria dello stimolo dell’organizzazione mediante un presunto metodo-Diaz di “decimazione”, non solo non può che essere fallimentare, ma non può nemmeno essere riferibile al generale Diaz, che dopo Caporetto portò l’esercito italiano alla vittoria introducendo metodi più umani nella conduzione dei soldati, sino ad allora trattati come bestie; casomai al suo predecessore generale Cadorna, che proprio trattando gli uomini come bestie portò tutti ad una disastrosa sconfitta. Ma evidentemente la metodologia di leadership stile Cadorna le è più congeniale, con i bei risultati che tutti hanno potuto vedere”.

Già, i risultati. Dal 1997 al 2005, per una Giunta e mezzo, è durata l’era di Fumagalli, subentrato a Fassa dopo l’improvvisa rinuncia del troppo colto filosofo-avvocato gallaratese, reso famoso dal Maurizio Costanzo Show e poco incline a ricandidarsi con una Lega non più “partito repubblicano di massa” – come aveva sognato nel libro Metropolis, intervistato da Giorgio Bocca – ma ormai alleata del centralismo romano, xenofoba e fatta ripiegare dall’autoritarismo bossiano su identità padane fasulle e risibili.

Il primo periodo si apriva nel 1997 con una Giunta fortemente “infiltrata” da docenti di un’Università dell’Insubria ancora in fieri, impegnati a sostegno dell’incipiente autonomia dell’ateneo varesino; profilo che costringeva il neo-sindaco, ritenuto un moderato per l’ascendenza maroniana, a cercare di volare alto e a sfoggiare il sorriso e l’apertura manageriale con la tecno-struttura comunale. “L’ho conosciuto, è proprio una bravissima persona, dobbiamo far di tutto per aiutarlo!”, mi raccomandava il prestigioso segretario generale d’allora, poiché a quel tempo da una decina d’anni dirigevo personale e organizzazione, funzione critica per l’orientamento manageriale dell’ente; e infatti dopo due mesi il segretario si ritrovò “ex”, licenziato in tronco dall’esordiente borgomastro.

Quanto a me, vidi sul campo la nuova ottica manageriale: fin dal primo incontro di trattativa sindacale, sulle travagliate “rogne” della produttività, mi apparve chiaro che il sindaco tendeva a ricercare un’alleanza coi dipendenti contro i dirigenti, pronto a buttare a mare ogni meccanismo gestionale premiante pro-efficienza se elaborato dalla dirigenza – e, gioco delle parti, contestato dall’organismo sindacale interno, la RSU – pur di accattivarsi la simpatia della “base” e contrastare il “potere” dei tecnici.

Non ci riuscì, perché la componente egemonica dell’organismo sindacale, seppure di sinistra radicale, non mancava certo d’intelligenza e diffidava di quelle bizzarre aperture democraticiste, non bastando l’affinità nominalistica sindaco/sindacati a impiantar pastette tra ruoli aziendali oggettivamente contrapposti. Restava la mia delegittimazione pubblica davanti ai sindacati interni, e mi salvai dalla gogna organizzativa, dal trasferimento punitivo a diriger qualche usciere, sol perché nel frattempo il mio progetto di “sistema di valutazione delle prestazioni e del merito” fece vincere al Comune di Varese il primo premio nazionale al Forum della Pubblica amministrazione sull’innovazione manageriale. Fumagalli andò a Roma a ritirarlo e non poté che confermarmi.

Il resto di quel primo mandato proseguì in coerenza, col nuovo intraprendente segretario generale scelto da Fumagalli che sudò sette camicie a far da mediatore tra sindaco e dirigenza-funzionari, nel senso di far comprendere a un vertice politico soggettivamente autocratico le ragioni tecniche per cui la sua volontà presuntivamente onnipotente poteva o non poteva concretarsi, aveva o non aveva elementi di razionalità, compatibilità, realismo; insomma, stava in cielo o in terra. Fino all’estenuazione, fino all’infarto, che dopo cinque anni di tira e molla si profilò a fiaccare le coronarie del Segretario-martire.

Con quel modo di procedere, i risultati non abbondavano, e Fumagalli s’era alienato perfino il suo partito a livello cittadino, che tuttavia – non potendo perdere la faccia col negargli la candidatura alla riconferma – si attestò sul compromesso neutralista “né aderire né sabotare” e gli lasciò fare la campagna elettorale da solo, tutta sulle paure popolari e il mito della sicurezza (foto di propaganda con la pistola in mano, da 007 bosino). L’onda lunga leghista non era ancora finita, e la riconferma avvenne nel 2002, la sventurata (città) rispose. Ma essendo finito il ciclo del segretario-martire, come pure di assessori-professori poiché l’Insubria autonoma era cosa fatta, su entrambi i fronti Fumagalli poté scegliersene di meno ragguardevoli, per prendersi tutta la scena senza filtri. Si apriva col fiato delle trombe l’era fragorosa del sindaco-borgomastro, iniziava il girone infernale della tecno-struttura comunale.

Inaugurata dalla singolare, discutibile scelta d’un dirigente interno come direttore generale (forse frainteso come domatore-fustigatore), esplose la sfiducia generalizzata del sindaco verso gli altri dirigenti – pur con il riconoscimento, occasionale, che la macchina comunale “non è malaccio” – per presunti boicottaggi e sistematiche inefficienze. Si manifestò ripetutamente, con stillicidio di “frustate” e secondo il principio di “decimazione cadorniana” succitati, sino a kafkiani incontri-processo collettivi alla presenza degli assessori in veste di “corte d’assise” (e la loro sbigottita irritazione per un uso così strumentale del ruolo assessorile); e sino a simil-carbonerie dirigenziali: riunioni sindacali d’auto-mutuo-aiuto dei dirigenti stessi – sino ad allora del tutto estranei, e anzi riottosi a qualunque forma d’agitazione para-sindacale – in gran segreto e fuori orario, a casa dell’uno o dell’altro. Personalmente fui anche invitato dall’alto ad auto-licenziarmi, a corredo di ripetute e pretestuose contestazioni d’addebito, che sottraevano al lavoro molto prezioso tempo per puntigliose relazioni scritte d’autodifesa. Ma la spada non poté mai essere affondata, alla fine gli elementi accusatori di sostanza mancavano, e anzi finirono per abbondare a carico del borgomastro stesso, con la notoria folata giudiziaria che lo convinse a togliersi di mezzo da solo, tristemente e tristemente dimissionario nell’ottobre 2005.

Dopo l’inferno, la gestione commissariale Porena reimpiantò per sei magici mesi il paradiso dirigenziale già vissuto nel 1992 con la gestione commissariale Calandrella: responsabilizzazione personale piena dei dirigenti, collegialità reale delle decisioni con la “giunta tecnica” (commissario, segretario e dirigenti insieme), rispetto reciproco e reciproco controllo in tutte le questioni trasversali e intersettoriali, leadership partecipativa di qualità da parte del commissario. Certo, limitazione dell’attività istituzionale all’ordinaria amministrazione, come vuole la legge per gli organi non eletti; ma, almeno, sperimentazione di una razionalità collettiva orientata al bene comune della città, che si vorrebbe sempre presente, e alimentazione della speranza che prima o poi la si possa ritrovare in circostanze ordinarie.

La novità poteva essere la nuova Giunta Fontana? L’avvocato-sindaco si presentava con l’allure del professionista stimato, dall’eminente ruolo istituzionale alla presidenza del Consiglio regionale, e già durante gli anni di Fumagalli non erano mancati segnali discreti – dall’alto scranno milanese – di moral suasion per raddrizzare la barca varesina. Scelta del nuovo segretario, e successiva assunzione nella propria segreteria particolare dell’ex vice-segretario post-pensionamento, erano segnali di attenta considerazione dell’esigenza di un rapporto sereno e positivo con la tecno-struttura.

Ma se a livello di stile i rapporti personali sono stati sempre improntati al miglior galateo istituzionale, dopo i formali (sinceri?) apprezzamenti iniziali, nella sostanza l’insoddisfazione del vertice politico è montata gradualmente, mutandosi man mano in sfiducia, non esplosiva ma diffusa, insinuante, sottilmente debordante. Al mugugno deluso della Giunta non poteva che man mano corrispondere analogo disilluso borbottio dirigenziale, finché le sedute settimanali di Giunta son finite per metà a lamentarsi dei dirigenti, e le riunioni preparatorie settimanali dei dirigenti ad occuparsi per metà di lamentarsi della Giunta; in continuità dalla prima alla seconda sindacatura Fontana. Ciascuna parte che dà la colpa all’altra dei rispettivi insuccessi, dell’impossibilità a concludere alcunché di serio e risolutivo, di contrastare il declino della città, uniti soltanto nella comune protesta contro lo Stato cinico e baro, che blocca tutto e tutti col Patto di Stabilità-Stupidità. Microconflitti senza esternazioni, né al Consiglio comunale né all’opinione pubblica, striscianti ma diffusi a macchia d’olio, e decisivi nel sottoutilizzare capacità e creatività potenzialmente disponibili nell’organizzazione dell’ente, quindi nel minare efficacia ed efficienza di risultati alla città.

Tutto inevitabile? Il rapporto tra politici e tecnici non può sottrarsi all’alternativa tra battaglia aperta e corteggiamento, più o meno interessato o occulto? Quel che è sempre mancato, sembra, è la fiducia vera, credere sul serio che i tecnici possano avere reale interesse a lavorare al meglio per il bene dell’ente e dei cittadini… e così i politici. Ciascuna parte ritiene inevitabile la patologia, non la fisiologia; il cinismo, non l’impegno. E anche se o quando trova il buono, non lo sa riconoscere, pensa all’eccezione contingente o all’inganno sofisticato.

Eppure l’assertività, ossia la capacità di avere fiducia negli altri e generare fiducia in loro, è la dote-qualità principale di un’organizzazione per funzionare nel tempo.

(3-continua)

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