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Politica

“I HAVE A DREAM” A PALAZZO

FRANCESCO SPATOLA - 24/04/2015

organigramma“L’Intendance suivrà”, secondo il generale De Gaulle, sordo ai richiami dei suoi collaboratori a un maggior realismo strategico nel definire un piano di battaglia, e altrettanto comportandosi da leader di governo. “L’Amministrazione seguirà”, han sempre teso a pensare, più o meno consciamente, gli strateghi politici in procinto d’affrontare le battaglie di un ciclo legislativo statale o regionale, o amministrativo comunale. L’automatismo della fase realizzativa è l’illusione costante di chi vuol cambiare volto al paese o verso alla città: sembra solo una questione di qualità degli uomini al comando, dei partiti che li esprimono, dei programmi politici professati e inseguiti. E invece realizzare quei programmi, e ottenere risultati di successo tramite l’amministrazione dell’ente, ossia tramite gli oscuri “tecnici”, non è affatto scontato.

Ho cercato di mostrarlo per il Comune di Varese, invischiato nelle prossime elezioni del 2016, ripercorrendone le vicende dagli anni ’70 a oggi: i risultati peggioravano sì radicalmente al crollare della qualità politica di uomini e programmi, ma non miglioravano affatto significativamente nemmeno con uomini e programmi migliori.

Diffidenza, sfiducia, insoddisfazione reciproca restano il filo sottile che unisce il rapporto tecnici/politici negli anni trascorsi, indipendentemente dalle varie persone che si sono avvicendate: ciascuna parte farebbe volentieri a meno dell’altra, se potesse cacciarla o sostituirsi ad essa. Non potendo, ciascuna parte non riesce a prendere l’altra sul serio e ad apprezzarla davvero, interferisce appena c’è un po’ di campo libero, scarica sull’altra – anche solo soggettivamente, o a bassa voce – gli insuccessi, e ritiene vadano attribuiti a sé i (sempre insufficienti) successi, salvo riconoscimenti reciproci in pubblico per mera convenienza, ipocrisia, galateo istituzionale. Si può mai continuare così? E non c’è un punto d’attacco, un piede sbagliato, un qualche nodo gordiano da tagliare per sbloccare la palude?

C’è: ben aldilà di contingenti aspetti personal-caratteriali, tutto il rapporto tecnici/politici in Comune si svolge nel “cerchio magico” della Giunta, Sindaco e Assessori, col Consiglio comunale a far solo da tappezzeria. Alla base di tutto il pantano locale c’è un fatale equivoco generale, non certo solo varesino e che apparentemente non c’entra nulla col rapporto tra tecnici e politici. L’equivoco fatale è dare per scontato che il potere di governo risieda nella giunta comunale coordinata dal sindaco, nonostante si tratti formalmente dell’organo cosiddetto “esecutivo” rispetto alle decisioni sostanziali, che per legge sarebbero di formale competenza del consiglio comunale, organo cd. “deliberativo”. Nella realtà della prassi, come è sotto gli occhi di tutti, da tempo immemorabile il consiglio comunale è espropriato ed esautorato dei suoi poteri dal connubio sindaco-giunta, vero e unico organo politico di riferimento per l’apparato comunale in genere e per la dirigenza comunale in specie, che tiene in considerazione i consiglieri comunali soltanto per buona educazione.

Succedeva già prima della riforma Bassanini del 1990: indipendentemente dal fatto che la gran parte dei poteri decisionali spettassero per legge al Consiglio comunale, la scappatoia per trasferire subdolamente tutto il governo del Comune alla giunta municipale (allora si chiamava così) era la “deliberazione d’urgenza”. Si inventava qualunque ragione di tempestività d’intervento, e poi decideva la giunta “con i poteri del consiglio”, ossia sostituendosi al consiglio, cui spettava solo la ratifica entro 60 giorni, a pena di decadenza della decisione ma anche di crisi di maggioranza, e quindi con l’obbligo di dire di sì per disciplina di partito. Un andazzo in teoria eccezionale ma che era diventato la norma, finendo man mano per derubricare il consiglio comunale ad assemblea accademica e parolaia, dove si fanno dei bei discorsi sui massimi sistemi ma non si conta nulla.

Meccanismo ben assimilato dall’apparato tecnico comunale, che vedeva nel rispettivo assessore il dominus assoluto delle decisioni politiche, trovandoselo individualmente di fronte tutti i giorni a dare direttive sui singoli provvedimenti. Perché – complice la formula dei governi di coalizione, in cui ciascun partito contava per la singola “cadrega” occupata, rendendo inevitabile la lottizzazione del potere – l’ineluttabile conseguenza immediata dell’espropriazione dei poteri del consiglio da parte della giunta era la scomposizione del potere, all’interno della giunta stessa, tra i singoli assessori e il sindaco, di fatto primus inter pares e per nulla (o ben poco) sovraordinato.

La giunta funzionava infatti come uno strano consiglio d’amministrazione “a brandelli”, in cui tutti i componenti sono amministratori delegati e l’unitarietà dell’organo è affidata ad accordi politici esterni tra le segreterie di partito, tenuti insieme solo dal cemento di non perdere la condizione di maggioranza e quindi il potere. Pertanto ciascun dirigente-funzionario-dipendente comunale aveva di fronte non la giunta come organo unitario, ma i singoli assessori, che per mera convenienza si aggregavano nella giunta e che governavano una struttura organizzativa comunale frantumata in “assessorati”. Una vicinanza, un rapporto diretto così esclusivo-escludente da rendere il comune, di per sé azienda multi-servizi, come un coacervo di assessorati, una “federazione di repubbliche indipendenti”, ciascuna governata dal singolo assessore, che partecipa alla giunta solo come stanza negoziale di compensazione: io ti concedo di fare quel che vuoi con il tuo assessorato, tu lasci fare a me quel che voglio io. Disgregazione tanto più frammentaria quanto più numerosi erano gli assessori, in corrispondenza della moltiplicazione degli appetiti dei partiti di riferimento.

La conseguenza necessaria di questa disarticolazione organizzativa era la disarticolazione politico-istituzionale, il piccolo cabotaggio, e alla fine l’immobilismo: ritrovandosi governatore monocratico della sua intangibile repubblichetta, l’assessore tendeva a ritrarsi dal ruolo – troppo scomodo, perché propriamente politico, difficile e complesso e – di “stratega” che analizza i bisogni ed elabora gli indirizzi di soluzione, per trasformarsi in comodo “tattico” che dà per scontato quel che c’è e si limita a gestirlo schivando i rischi, indifferente al conseguente declino; ovvero aprendo spazi alla corruzione: quando manca una “missione” forte, subentrano gli affari. In quest’ambito grigio e opaco, la politica in senso forte sparisce, è solo un meccanismo di selezione degli assessori, ma il singolo assessore, prigioniero della mediocrità personale e di partito, rintanato nella sua porzione di “palazzo”, finisce necessariamente per sovrapporsi al dirigente.

Non avendo messaggi politici da lanciare, l’assessore è lì a dire “sì-ni-no” – in base al proprio capriccio, intelligenza e cultura (più o meno limitati), interesse particolare – a quel che gli propone il dirigente; e il dirigente è lì a dire “sì-ni-no” a quel che il politico, entrando nel merito dell’ordinaria gestione, gli propone o dispone per motivazioni purchessia, più o meno misere o bizzarre.

In tali grigiore e opacità s’annidano tutte le perversioni: il rapporto può diventare di volta in volta negoziale o conflittuale, il dirigente o l’assessore può essere corteggiato o combattuto dal partner, si generano più o meno lecite forme di complicità. Ma non può mai esserci collaborazione “fisiologica”, basata sul rispetto rigoroso di ruoli diversi e sulla corrispondente reciproca fiducia: tenderanno a prevalere – magari in modo dissimulato, o talora perfino aperto – le “patologie” competitive. Rimane a unire manifestamente tecnici e politici solo il collante della convenienza reciproca alla deresponsabilizzazione: ciascuno sa che può rifugiarsi nella responsabilità dell’altro, ciascuno può permettersi di restare irresponsabile, ciascuno ha interesse a coprire l’altro per coprirsi in proprio. E con l’irresponsabilità, l’inefficienza prolifera e si aprono spazi per il degrado.

Nel 1990 inizia il tourbillon delle leggi di riforma Bassanini, che puntano all’efficienza delle gestioni sia sul fronte dei rapporti consiglio-giunta – e poi sindaco, con la riforma 1993 – sia sul fronte dei rapporti degli organi politici con i tecnici. La distinzione tra “indirizzo-controllo” come competenza dei politici e “gestione” come competenza dei tecnici vorrebbe responsabilizzare gli uni e gli altri, ma non tocca il nodo della composizione della giunta come somma di assessori-amministratori delegati di repubbliche indipendenti. Anzi, l’esautoramento del Consiglio comunale viene a essere perfezionato, con diretta attribuzione alla giunta – con motivazioni d’efficienza – di molteplici decisioni che prima competevano al consiglio e dovevano essere aggirate con l’escamotage delle deliberazioni d’urgenza.

Si toglie l’ipocrisia, ma resta l’imbroglio; ancora più evidente nel caso dei dirigenti, cui vengono assegnate tutte le responsabilità formali sulla realizzazione degli interventi, trascurando il fatto che le decisioni operative continueranno ad essere prese dai singoli assessori-amministratori delegati, interferendo coi dirigenti stessi. Fatta la legge, rimane l’inganno: la distorsione dei poteri di governo, con la giunta-mangiatutto che confisca consiglio e dirigenti, cementata nella prassi, è solo perfezionata con le interpretazioni pratiche della nuova “teoria” di legge.

Distorsione senz’altro censurabile, com’è ovvio e già avviene sempre più spesso, sotto il profilo democratico in quanto “furto di democrazia”: i rappresentanti del popolo, in cui risiede la sovranità, sono i consiglieri comunali e non gli assessori; mentre il sindaco è bensì oggi di elezione diretta popolare (dopo la citata riforma 1993), ma nella logica della legge lo è innanzitutto per trasparenza di risultato elettorale e formazione di maggioranze di governo chiare e nette, e poi soprattutto come elemento di collegamento e sintesi tra potere “deliberativo” (cioè decisionale sostanziale) del consiglio comunale e potere “esecutivo” della giunta: ossia per ottimizzare il ruolo esecutivo della giunta in attuazione delle decisioni del consiglio, non per sequestrare al consiglio i suoi poteri. Come dimostra la permanente necessità formale per sindaco-giunta di acquisire e mantenere la fiducia programmatica del consiglio, e la possibilità di decadere e tornare ad elezioni popolari se con una mozione di sfiducia il consiglio gli vota contro. Pericolo contro cui s’affannano a lottare segreterie politiche, capigruppo, capicorrente, gruppi d’interesse e lobby locali, ecc.

Ma la distorsione è altrettanto perniciosa, com’è meno ovvio e nessuno obietta, sotto il profilo organizzativo in quanto “furto di efficacia, efficienza, funzionalità”: nel contesto di “giunta disgiunta” che si è descritto, assessori e dirigenti sono doppioni superflui, dirigenti politici d’estrazione partitica gli uni e dirigenti tecnici d’estrazione concorsuale gli altri, ma comunque concorrenti-competitori nelle decisioni realizzative dei programmi politici dell’ente. Non si rubano il lavoro a vicenda sol perché, mediamente, gli assessori lavorano una /due ore al giorno e i dirigenti circa otto: dopo avere perso tempo a tener buono l’assessore di turno nelle ore in cui c’è, i tecnici possono finalmente andare a lavorare nelle ore restanti. Ma se un assessore volesse, paradossalmente, lavorare per quanto lo pagano (in media, oltre 3.000 euro lordi/mese), e quindi tutto il giorno tutti i giorni, il conflitto non potrebbe che esplodere per reciproca insopportabilità.

Come rimediare? I have a dream: vanno aboliti o gli assessori o i dirigenti, via i doppioni, e vera semplificazione amministrativa, escludendo comunque la delegabilità ai singoli assessori della sovrintendenza alla tecnostruttura comunale che è nella competenza del sindaco, e riconducendo tutto ad unità, a una “repubblica” sola. De facto, e in attesa simil-messianica, nulla vieterebbe che si riducano gli assessori al minimo di legge (quattro per Varese) e – in una giunta finalmente unitaria – li si riconduca al significato letterale di meri “assistenti” del sindaco, a sua volta restituito al ruolo fisiologico di tramite “esecutivo” tra Consiglio comunale e tecnostruttura, e finalmente liberato sia dalle tentazioni tracotanti da satrapo vorace e tirannico, sia dalle aspettative mitiche da super-eroe de noantri, demiurgo pantocratore, avenger-borgomastro.

In corrispondenza, i dirigenti – pur a incarico fiduciario del sindaco (meglio sarebbe stato da albo professionale ad hoc, su spoil system meritocratico) – vanno responsabilizzati appieno verso il Consiglio comunale e non più solo verso sindaco-giunta, trasferendo ai presidenti di commissione consiliare il ruolo di sovraintendenza politica settoriale, usurpato dagli assessori-amministratori delegati. Sempre partecipi a sedute di giunta che assorbano la loro conferenza periodica, i dirigenti potrebbero ritrovare nei quattro assessori i vertici del coordinamento intersettoriale, a suo tempo ipotizzato dall’apprezzabile, inattuata ed ancora attuale riorganizzazione 1996 (Studio AO), che prevedeva altrettante “divisioni”: territorio, servizi alle persone, finanze e controllo, amministrazione strategica e innovazione.

A corredo, servono assessori muniti dello stesso volontarismo politico che si chiede ai consiglieri comunali: indennità di carica simbolica per loro come per il sindaco, con risparmio di alcune centinaia di migliaia di euro all’anno, che meglio si spenderebbero per contribuire a riportare Varese all’antica identità di città-giardino aperta allo sviluppo e di respiro europeo, che politici non mediocri e capaci di visione, non schiacciati sulla gestione ordinaria ma arricchiti dalle competenze sfidanti di tecnici responsabili e perciò motivati, potrebbero saperle riconsegnare.

(4 – fine)

 

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