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Stili di Vita

ANTICHI E NUOVI VIAGGI

VALERIO CRUGNOLA - 24/04/2015

ViaggiatoreDa quando il tempo libero è stato sottoposto, nel secolo scorso, a un processo sempre più esteso di industrializzazione, sono mutate anche le forme del nostro «recarci altrove», estremo retaggio di un passato dell’umanità dominato dal nomadismo. Le risorse economiche, le energie psichiche e la quantità di giorni che destiniamo ai nostri spostamenti per il tempo libero, fanno del nostro «recarci altrove» un tema rilevante per riflettere sui nostri stili di vita. Alle vecchie tipologie antropologiche – il vacanziere, il viaggiatore, il vagabondo – se ne sono aggiunte altre: il turista localizzato e il turista globale.

I vacanzieri esistono da secoli, almeno tra le élite sociali, e seguitano a esistere. Nel tempo sono cambiati i loro ordini di grandezza, le appartenenze sociali, le modalità di soggiorno, la durata e i luoghi della vacanza, le distanze tra quei luoghi e quelli di residenza e le stagioni dell’anno preposte, ma non altrettanto gli obiettivi, almeno in senso concreto. Chi va in vacanza ha voluto e ancora vuole uno spazio stanziale, confortevole, dove dedicarsi al riposo fisico, allo svago psichico, ad attività salutari nella natura, a passioni elettive, al divertimento e al piacere, alternando momenti di solitudine ad altri di convivialità: tutti obiettivi che normalmente, nei periodi dedicati al lavoro, sono perseguibili solo da pochi privilegiati. Come nella musica jazz, l’improvvisazione estemporanea introduce nella quotidianità del vacanziere continue variazioni di un medesimo ritmo già noto, sperimentato e previsto, piccole emozioni centellinate. Occorre sapienza, e non subordinarsi a falsi scopi: la tirannide dell’abbronzatura, la caccia sessuale, il divertimento ad ogni costo.

I viaggiatori, al contrario, sono una specie quasi estinta. Viaggiare equivaleva a muoversi con lentezza, a percepire la durata e la fatica del moto, la resistenza degli spazi, l’alterità dei mondi. Ci si doveva adattare, più che in rapporto ai mezzi economici, a quello che si sarebbe incontrato nei lunghi trasferimenti o negli ancor più lunghi soggiorni. Si cercava qualcosa di ignoto, degno però di essere non semplicemente visto, ma vissuto dal di dentro, e quindi conosciuto. L’avventura, l’emozione e talvolta il rischio erano il prezzo da pagare alla sete di conoscenza, al desiderio di una relazione diretta.

Il viaggio andava preparato con cura. La fantasia era una forma di esplorazione preventiva, appoggiata a strumenti come mappe, atlanti, diari e libri di altri viaggiatori (in qualche caso veri e propri capolavori, come i resoconti di viaggio di Montaigne o di Goethe). Spesso prima di partire i viaggiatori imparavano i rudimenti della lingua del paese dove si sarebbero recati. Partivano portando con sé album da disegno (poi sostituiti lentamente dalle apparecchiature fotografiche analogiche), quaderni per appunti e raccoglitori vari. Si appoggiavano a guide del posto, ma non appena potevano sceglievano da sé, per scoprire con i propri occhi e non attraverso gli occhi di un altro, lasciandosi colonizzare da lui. Stringevano nuove amicizie e frequentazioni, incuriositi e arricchiti dai nuovi incontri. Tenevano fitti epistolari con chi era rimasto lontano, per non smarrirsi lasciando evaporare, nel distacco, il proprio mondo e le proprie relazioni. Si fermavano a lungo nelle località che avevano prescelto nel corso del viaggio, che era sempre aperto, mai rigidamente preordinato. Preferivano l’ospitalità diretta piuttosto che il soggiorno in ambienti specializzati. E non erano assillati dalla fretta e dalla smania bulimica di vedere senza osservare, senza sostare per cogliere un’atmosfera. Tanto nella preparazione quanto nel viaggio vero e proprio più che le cose viste interessavano l’esperienza interiore, il mettersi alla prova, la scoperta di sé. Si viaggiava per conoscere e conoscersi, incontrare e incontrarsi, vedere e vedersi nella riflessività.

Talvolta viaggiare equivaleva al vagabondare, a un nomadismo volontario che cercava in forme esasperate una radicale libertà. Il fascino millenario della vita errabonda nasceva dal fatto che a decidere dell’andare fosse il caso. Il romanticismo ha esaltato il piacere e il gusto delle piccole cose: in un celebre Lied musicato da Schubert, Das Wander, il vagabondo ascolta il ruscello, il cigolare delle ruote del mulino, il canto degli uccelli, la voce della bella mugnaia, e tanto gli basta per essere felice e inebriarsi della bellezza del vivere, spogliandosi di troppi orpelli, raffinatezze, agi e pretese intellettualistiche. Un ideale, in verità, in seguito altamente intellettualizzato, a partire da Rousseau fino al Walden, l’enfatico «uomo dei boschi» di Thoureau, o alla pregnante figura dell’anarca di Jünger. L’apice della rivisitazione moderna del vagabondo si ebbe negli anni ’60 negli Stati Uniti, motivata da una sete di esperienze, da uno sperimentalismo esistenziale di cui la strada era, sulle orme di Kerouac, insieme la metafora e il territorio utopico: muoversi per sottrarsi alla disciplina, percepita come autoritaria, delle convenzioni sociali e delle forme interiorizzate della civilizzazione, e così «vivere altrimenti», in potenziale antagonismo con quei poteri «molecolari», come avrebbe detto Gramsci, o «microfisici», come avrebbe invece detto Foucault.

Con la società di massa affermatasi a partire dal secondo dopoguerra, ai viaggiatori sono subentrati i turisti. Il passaggio dal turista localizzato al turista globale è un ulteriore mutamento tipologico, decisamente più recente ma persino più radicale nei suoi effetti antropologici e per le ripercussioni esistenziali, sociali e ambientali che la loro stessa esistenza su scala planetaria comporta. Il web segna lo spartiacque tra queste due figure. Il turista localizzato qualcosa ancora scopriva: l’immaginazione e la sete di conoscenza avevano ancora un ruolo; la cultura si associava all’intraprendenza come motivazione del viaggio; era necessario desiderare imparare, vedendo e osservando con lentezza e con cura, meglio se in silenzio.

Il mondo a sua volta aveva ancora qualcosa da mostrare, non era così omologato, così ridotto a triviali, fasulli e preconfezionati esotismi, come la passeggiata in cammello sulla spiaggia di Sharm-el-Sheik, tra pizzerie vistamare, venditori di cianfrusaglie made in China e i profumi dolciastri delle creme abbronzanti. Il distacco «da casa» era ancora percepibile. Non scrivevamo più lettere, ma almeno inviavamo cartoline, per rendere partecipi le persone a noi care di quanto avevamo visto. Una volta tornati, il viaggio diveniva un’occasione di narrazione, di condivisione di immagini commentate, e magari di suoni o di sapori. Con noi riportavamo dei cimeli scelti con attenzione, magari assecondando un’inclinazione o l’impulso a comporre una nostra personale wünderkammer.

Oggi il turista globale ha già visto tutto in anticipo, il mondo intero è a sua disposizione con poche ore e pochi euro. Ci spostiamo per confermare quello che già abbiamo visto, al punto che nemmeno vediamo più, né ci interessa farlo: il mondo – un paesaggio, una piazza, un palazzo, un dipinto, un’antica chiesa – è solo uno scenario egotistico, una cartolina di sfondo per un selfie, una delle pratiche più imbecilli che le tecnologie digitali multiuso consentono a miliardi di persone che sembrano «felici così», contente di sé nel loro puerile esibizionismo. Tutto è ridotto ad effimera curiosità, a consumo; e dall’altra parte troviamo tutto già predisposto al nostro consumare. La reciprocità e l’ospitalità sono scomparse a favore di un bonton tanto livellato quanto scontato, come il buongiorno del barista sotto casa. Il turista è una merce da trattare bene, anche se i Totò in caccia di polli da spennare restano, specie nei paesi poveri, figure comuni ma molto amate dai cacciatori di emozioni grossolane e posticce, portatori sani di un turismo devastante.

In un certo senso, in questo scenario psichicamente omologato, persino i turisti sono ormai estinti. Pur spostandoci da un angolo all’altro del pianeta con estrema facilità, in tempi ridotti e con costi sempre più accessibili, di fatto è come se non ci muovessimo mai di casa o, peggio, come se non ci togliessimo mai dallo specchio in cui ci riflettiamo compiaciuti. Dal viaggio come scoperta del nostro io siamo passati a un moto insistito, continuo e prevedibile attorno al nostro ego. Professionisti del turismo lucrano su di noi, pianificando ogni cosa, e differenziando sapientemente un prodotto che alla fine è sempre la stessa minestra.

Questa non è una rubrica di consigli, né saprei cosa consigliarvi. Certo non concluderò parlando di turismo «responsabile», «intelligente» o «alternativo». Il rischio della retorica incombe, e i sono addirittura dei manuali per questo! Suggerirei al più di sottrarvi ai riti, ai luoghi, agli imperativi e agli imprenditori del turismo globale. Tornare viaggiatori è impossibile. L’esperienza della vita errabonda ci ha già detto tutto. Possiamo invece reinterpretare la figura del turista locale da poco out of date ma non estinta: una persona selettiva, capace di cavarsela da solo, di lasciare spazio a elementi non prevedibili, di valutare la preziosità della lentezza, dell’osservare interrogandosi e delle atmosfere autentiche che si possono respirare in centri non ancora artefatti e devastati dal turismo di massa. Ma, a questo scopo, lasciate a casa le guide Tci e Lonely Planet, lo smartphone e altre diavolerie, tenetevi delle intercapedini per voi, ripulitevi dall’esotismo e dai luoghi comuni, e cercate incontri e informazioni più che merci e ricordi.

Ma se proprio volete essere viaggiatori, provate a varcare a piedi i confini tra Eritrea e Sudan, e di lì risalite con mezzi di fortuna lungo piste desertiche fino alle coste libiche, per imbarcarvi su un qualche trabiccolo verso Lampedusa come se foste dei profughi in fuga dalle guerre, dalle persecuzioni etniche e religiose, dal fanatismo, dalla tirannide, dalla miseria e dalla deprivazione. Vivrete da dentro l’esperienza degli ultimi viaggiatori, dei rischi che essi corrono in questo loro andare verso l’ignoto, della disperazione che li muove. E forse, una volta a casa, sarete vaccinati per sempre dai seminatori di odio a scopo politico, con tanto di felpa ma per nulla felpati… Fa bene alla salute, privata e pubblica.

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