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Attualità

IL GIORNO DEI BLACK BLOC

FRANCESCO SPATOLA - 08/05/2015

black-blocLe devastazioni nel centro di Milano il 1° maggio, giorno d’apertura dell’Esposizione universale, hanno prodotto un coro di polemiche mediatiche che ha finito per oscurare la festa inaugurale Expo 2015 e il senso di riscatto nazionale che poteva esservi collegato, dopo l’agonia di scandali, sprechi e malversazioni che ne avevano caratterizzato il settennato preparatorio. La solita Italia che condisce gli spaghetti con la pistola, immortalata da “Der Spiegel” anni fa, è tornata sugli schermi mondiali con la sola sostituzione delle molotov nel sugo di violenza e i black bloc come primo ingrediente al posto della mafia. Mini-barricate in fiamme, oltre cinquanta auto bruciate, trenta vetrine di negozi sfasciate, muri imbrattati, strade disselciate per strapparne i sampietrini da scagliare ai poliziotti e poi riempite di fumogeni, tute nere, maschere antigas, guanti antitaglio, spranghe di legno, scarpe e scarponi protettivi, un armamentario da 30 euro raccattato su eBay e abbandonato con rapidi spogliarelli a fine saccheggio, confondendosi col corteo al riparo dei fumogeni e squagliandosela per ogni dove.

Ed ecco i commentatori di destra a stracciarsi le vesti, e dagli strepiti sul teppismo politico far di ogni erba un fascio tra manifestanti e black bloc, allargandosi a contestare la legittimità di ogni critica “no global” alle multinazionali agro-alimentari e all’impronta ultra-comerciale di Expo; per poi subito sprofondarsi nelle dichiarazioni d’amore alle forze di polizia, tradite da un governo incapace di far la faccia feroce e iniquamente intimidito dalla recente condanna europea per tortura, a 14 anni di distanza dalle atroci giornate di Genova del vertice G8. Con molti commentatori di sinistra a incendiarsi e impelagarsi nell’attacco postumo alle stesse forze di polizia per la tradizione anti-democratica, segno di uno stato autoritario che solo per viltà verso i mass-media internazionali non ha massacrato i manifestanti pacifici con la scusa dei black bloc, come fece a Genova nel 2001.

Contrapposizione preconcetta e ideologica che s’è ancor più scatenata sui social network, odierna versione virtuale di primitive, viscerali chiacchiere da bar. Con corollari risibili, sia sui media sia sui social, come l’invocare azioni di prevenzione familiare mediante emule italiane degli sberloni della mamma-coraggio di Baltimora al figlio incappucciato, strappato alla rivolta razziale per gli assassinii di polizia contro gli afro-americani; o le dilettantesche generalizzazioni sulla crudeltà black bloc in base alle “bausciate” del ragazzotto di Lachiarella, biripetente instabile e impudente gregario dei soliti funesti “centri sociali”.

Pochi o nessuno che sia entrato nel merito dell’affronto pratico delle esplosioni di violenza, come se fossero indistricabili dalle manifestazioni politiche anti-governative, sia sul versante di chi anima e agita i cortei sia sul fronte delle forze dell’ordine.

La memoria corta non consente di focalizzare come il fenomeno dei black bloc sia scoppiato dopo il 2000, con l’erompere sia dei processi di globalizzazione sia dei movimenti no global, e il venir meno delle tradizionali forme di protesta politico-sindacali che dagli anni Settanta in avanti avevano ritmato l’opposizione popolare alle politiche governative ed industriali, in Europa e soprattutto in Italia. In quegli anni cortei di protesta con centinaia, migliaia, decine e centinaia di migliaia di manifestanti hanno attraversato le principali città italiane con frequenza quasi quotidiana, senza che ciò significasse il deflagrare di vandalismi e distruzioni: non perché nei cortei non si insinuassero i fanatici della violenza fine a se stessa o i teppisti della porta accanto, ma perché le leadership politico-sindacali dei movimenti di protesta erano ancora abbastanza robuste da trattare i violenti come “agenti provocatori”, ossia persone che oggettivamente nuocevano alla buona causa della protesta e, pregiudicando il consenso popolare, finivano per dar ragione all’avversario politico-sociale del movimento.

Com’erano neutralizzate le teste calde sfasciatutto? Con forti “servizi d’ordine” interni al movimento politico-sindacale, con conseguenti rischi di degenerazione violenta dello stesso “servizio d’ordine” (per restare a Milano, i famigerati “katanga” del Movimento studentesco di Mario Capanna), ma consentendo il più delle volte di tutelare i beni privati dei cittadini, auto o negozi che fossero. E sono proprio i “servizi d’ordine” che mancano ai movimenti “no global”, permeati come sono di idealismo – magari velleitario, ma rispettabile – e perfezionismo etico sia sui “massimi sistemi” politico-economici sia sulle relazioni interpersonali: un pacifismo estremo dei legami inter-individuali pubblici e privati, che impedisce sia psicologicamente sia organizzativamente di adottare meccanismi di pressione coattiva su coloro che partecipano alle manifestazioni per profittarne a fini vandalistici, e che finisce per trasformare i cortei in “ventri molli” di protezione dei violenti, che vi nuotano come i pesci nel mare. Di buone intenzioni è lastricato l’inferno, e l’ottica naif del pacifismo anti-globalizzazione finisce per provocarlo con fuoco e fiamme nelle strade delle città, quando la risonanza dell’evento protestatario finisce per richiamarvi le frange violento-nichiliste black bloc. L’irrobustimento organizzativo dei movimenti di protesta non violenta è un’inevitabile priorità, a pena del suicidio di voci critiche che son sempre un “sale di democrazia”.

Ma anche sul fronte delle forze dell’ordine le cose non vanno, nonostante la riconosciuta bravura di una polizia stimata tra le migliori al mondo. Come accettare di vederla inerte a contemplare da lontano gli incappucciati sfascisti, che mettono a ferro e fuoco i beni dei cittadini, solo perché – questa è la giustificazione arrivata per Milano dal ministro dell’interno e dal capo della polizia – altrimenti ci sarebbe scappato il morto e si sarebbe rovinata l’immagine pacifica dell’Italia, scintillante protagonista di Expo?

Di fronte a quei desolanti scempi della convivenza civile, occorre riflettere pacatamente, fuori dall’onda dell’emozione e dagli sfoghi pseudo-moralistici da bar, ed entrare nel merito dei comportamenti professionali – ossia degli approcci “para-militari” – delle forze dell’ordine in servizi cd. “anti-sommossa”.

La strategia della polizia, in questa come in altre situazioni di teppismo collettivo di strada, è tuttora ferma alla logica passiva di contenimento-contrasto a distanza, tipica degli anni Settanta e successivi, quando i cortei più aggressivi si muovevano con la logica della “battaglia campale” e non del “mordi-e-fuggi” black bloc.

Ancor oggi le forze di polizia restano ad almeno 50-100 metri dalla testa del corteo, protetti dalle tenute (caschi, scudi, manganelli, lacrimogeni, idranti, furgoni ecc.) a mera protezione di obiettivi “sensibili”: 1) per evitare gli scontri con eventuali altri cortei di nemici politici; 2) per evitare che raggiungano zone di rispetto (rosse, verdi, grigie, ecc.) e sedi simboliche di attacco (istituzionali, finanziarie ecc.); 3) per evitare di essere aggrediti essi stessi dalle armi contundenti a lungo o corto raggio (sampietrini, molotov, spranghe ecc.). Con riserva di “carica d’alleggerimento” se il corteo s’avvicina a cercare lo scontro. Viene completamente trascurata la strategia odierna delle orde teppistiche black bloc: riscuotere la massima risonanza mediatica attraverso l’attacco e la distruzione di beni privati presenti in strada (autoveicoli) e che si affaccino sulla strada (vetrine, bancomat, tavolini, ecc.), sempre e comunque a debita distanza dai “quadrati romani” dei poliziotti, che così disposti non posson che fallire.

Sino ai casi più tragici di situazioni come il G8 di Genova, dove l’impotenza stessa di forze dell’ordine malamente schierate dai capi – più il soffiare sul fuoco di alcuni super-capi incapaci, venuti apposta da Roma – finì per ispirargli inesorabilmente uno spirito di vendetta, innestato sulla sub-cultura parafascista che permane inevitabilmente in chi si trova malpagato a prender sputi in faccia per altri che restano in poltrona a guardare lo spettacolo. E per prendersela poi ciecamente – scuola Diaz, caserma di Bolzaneto – con chi non c’entrava nulla, come si può temere abbiano fatto (ma graziaddio senza violenza) anche a Milano con quei pochi arrestati, sempre troppo tardi, sempre troppo lontano dai fatti.

Servirebbe allora, verosimilmente, un cambiamento incisivo di strategia: 1) selezionare gli eventi davvero critici per concentrare le forze (presenza solo simbolica ai cortei sindacali e politici dove il servizio d’ordine interno è già garantito); 2) presidiare il percorso stradale dei cortei pericolosi, non solo frontalmente a distanza ma anche lateralmente in prossimità con l’ausilio dell’esercito in funzione statica d’ordine pubblico (l’importanza dell’evento lo giustificherebbe, per l’enorme sforzo numerico non basterebbero le sole forze di polizia), e puntare sull’infiltrazione diretta di agenti nel corteo in contiguità con le frange violente, per tenere sotto controllo da vicino il teppismo anarcoide e intervenire subito, in flagranza; 3) a monte, migliorare selettivamente la retribuzione per servizi d’ordine pubblico e lavorare con la formazione, sanando l’insoddisfazione e potenziando diffusamente e in profondità l’etica professionale democratica dei poliziotti. Una polizia efficiente e democratica rende migliori le città e i cittadini.

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