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Stili di Vita

CHI HA PAURA DI PEPPA PIG

VALERIO CRUGNOLA - 15/05/2015

peppa pigAll’inizio dell’anno una delle più prestigiose case editrici del mondo, la Oxford University Press, ha deciso di non pubblicare più testi per l’infanzia e l’adolescenza che contengano riferimenti al maiale. L’intento è di non urtare la sensibilità di musulmani ed ebrei, che considerano i suini animali impuri. Questo in consonanza, secondo la casa editrice, con il carattere multietnico e multiculturale della società inglese. Insomma, in nome del politicamente corretto, niente più Peppa Pig, passione dei bambini e di molti adulti di tutto il mondo, almeno per i tipi della Oxford University Press.

Uno degli esperimenti mentali più semplici cui ricorrono i filosofi per testare una teoria o anche una scelta di vita, consiste nel condurla alle sue estreme conseguenze teoriche. Se ne esce convalidata, regge, almeno pro tempore, in attesa che qualche altro argomento la confuti. Se al contrario emergono contraddizioni insanabili, perde in tutto o in parte il diritto di cittadinanza nel mondo delle idee filosofiche.

Se adottiamo lo spirito di questo esperimento, ne concluderemmo che non è possibile pensare o fare più nulla, pur di non rischiare di offendere la sensibilità di qualcuno. Molti aspetti delle varie religioni possono offendere la suscettibilità di un’altra. Gli atei e gli agnostici potrebbero venire offesi da uno o più aspetti delle diverse religioni, se non anzi dalle religioni tout court; e a loro volta le persone religiose potrebbero sentirsi offese dagli atei in molti punti, se non anzi in quanto tali, per il solo fatto di esserci. Inoltre, nell’attuale «società degli individui» (una definizione tanto icastica quanto magistrale che risale a un saggio di Norbert Elias di mezzo secolo fa) ognuno, «ogni uno», è portatore di una propria sintesi culturale.

Non si ricavano le convinzioni dalle appartenenze, ma da sintesi complesse, alquanto composite e sempre componibili e scomponibili, non strutturate definitivamente in un rigido sistema identitario. E poiché nessuna sintesi sarà mai pienamente coincidente con quella di un altro, il politicamente corretto dovrebbe venire esteso a una quantità innumerabile di individui, e l’obbligo di non offendere nessuno avrebbe per conseguenza lo svuotamento di ogni identità, per quanto fluida essa possa essere. Finiremmo per vivere in un incubo perpetuo che ci vieta di esternare non solo i nostri convincimenti, ma anche ciò che per molti individui è assolutamente neutro, indifferente e innocuo. Portando ancora alle estreme conseguenze l’esperimento mentale, dovremmo rinunciare a elementi costitutivi della ricerca culturale da cui veniamo, come buona parte dell’arte figurativa, pur di non offendere quegli islamici dogmatici e integralisti che vi vedono una forma di idolatria; nello stesso tempo, per il rispetto che dobbiamo alla storia, saremmo costretti a chiudere i capolavori dell’arte occidentale in caveau irraggiungibili, per porli al riparo dalla follia iconoclasta di qualche fanatico.

Per rimediare a queste astratte (ma non insensate) conseguenze estreme, qualcuno ha immaginato la multiculturalità come un insieme di mondi paralleli destinati a non incontrarsi mai, chiusi in tanti ghetti psichici, prima ancora che fisici, in cui le varie identità (ad esempio etniche e religiose), date come immodificabili, si negano ad ogni interazione.

È intuitivo che una simile accezione della multiculturalità porterebbe a conseguenze altrettanto estreme e altrettanto inaccettabili: il classico rimedio peggiore del male che vuole contrastare. Intanto, la «società degli individui» non avrebbe più spazio, perché tutti dovrebbero abitare in un recinto comunitario dato dall’adesione a identità immodificabili: non solo le culture «altre» ‒ gli islamici piuttosto che gli induisti ‒, ma anche la nostra, che è caratterizzata non dall’osservanza dei dettami di una qualche religione positiva, ma dalla condivisione di un’elementare «religione civile», quella della libertà.

Siamo addestrati da secoli alla convivenza pluralistica, alla libertà di scelta identitaria e all’autodeterminazione individuale, ma dovremmo tenere questi valori all’interno del nostro recinto, rinunciando a priori a quella universalità dei diritti su cui si fonda, a partire dalla rivoluzione inglese del 1688, la nostra convivenza. Dovremmo tollerare che il vicino di casa, in nome della sua cultura, possa asservire la moglie, mutilare la sessualità della propria figlia e, una volta adulta, darla in sposa a un uomo da lei non scelto? Il punto più estremo cui dovremmo spingerci è l’obbligo di accettare che le diverse comunità vivano secondo i loro codici, scritti o non scritti, statuali o informali che siano, cannibalismo, incesto e pedofilia inclusi.

Altri invece hanno immaginato un rimedio diametralmente opposto: l’interculturalità. La convivenza sarebbe mescolanza, ibridazione, incontro: non assimilazione, non convivenza parallela, non melting pot ma integrazione inclusiva mediante relazioni dialogiche, spontanei intrecci culturali, identificazioni plurime. Più che teoriche, qui le critiche sono di tipo controfattuale: facile a dirsi, difficile a farsi. Quand’anche ciò fosse possibile, l’interculturalità non potrebbe costringere al dialogo le punte più radicali, che premono per conservare i rigidi vincoli comunitari e a imporre con la coartazione la loro osservanza.

I criminali attentati a Charlie Hebdo hanno a loro volta diviso l’opinione pubblica in tre distinti spezzoni: i fautori del politicamente scorretto, secondo i quali la libertà di satira non può essere sottoposta né a limitazioni né a forme di autocontrollo responsabile, pena la sua negazione come forma espressiva specifica; i fautori della libertà di espressione in senso lato; e chi antepone a tali libertà l’obbligo di non spingere la propria critica legittima fino all’offesa gratuita (nella fattispecie blasfema) dei convincimenti altrui.

Come si può intuire, qui si incontra il versante costruttivo e non artificiosamente «buonista» del politicamente corretto: un versante dettato da ragioni pragmatiche più che teoriche, a causa degli effetti indesiderati suscitati da una radicalizzazione della libertà espressiva spinta fino ad attribuire i caratteri di liceità e di convenienza, sempre e comunque, ad ogni irrisione, anche la più offensiva. Le difficoltà incontrate dal settimanale satirico francese sin dal secondo numero dalla sua uscita dopo gli attentati di gennaio sarebbero la prova migliore della moderazione dell’opinione pubblica in contrapposizione sia degli xenofobi di estrema destra sia degli integralisti del diritto di satira.

Un ultima nota. Il maiale potrebbe sollevare problemi di bioetica che non consentono soluzioni pienamente soddisfacenti, come quelli inaugurati dal rifiuto delle trasfusioni da parte dei Testimoni di Geova. Come dovrebbe comportarsi un cardiochirurgo se un islamico o un ebreo preferisse la morte al trapianto di un’aorta di un suino opportunamente trattato geneticamente per evitare il rigetto? E come fronteggiare le prevedibili reazioni degli animalisti?

Entriamo così nel cuore del problema. Non vi è una ricetta astratta per disciplinare la convivenza. Nessuna di quelle esplorate appare risolutiva, inclusa per alcuni l’ipotesi convincente, ma difficile a percorrersi, del «lealismo costituzionale» avanzata da Habermas. Tutte presentano effetti indesiderabili, fattuali o anche solo teorici. Le nozioni di politicamente corretto e di politicamente scorretto sono inservibili come il leggendario letto del torturatore Procuste, dove l’impossibilità di trovare una giusta misura costringeva i malcapitati a finire amputati o stirati.

Non servono regole formali di convivenza; servono individui conviventi, capaci di autoregolarsi nel concreto delle situazioni. Come potremmo accordare come giorno consacrato a Dio e al riposo il venerdì agli islamici, il sabato agli ebrei e la domenica ai cristiani (che, almeno in Italia, vi hanno rinunciato a favore del culto degli Zeus e Hera del nuovo paganesimo, Mercato e Produttività), senza che la convivenza di tutti non ne risenta? E se i buddisti decidessero di volere il martedì, gli induisti il mercoledì e i non credenti il giovedì, dovremmo lavorare solo il lunedì? Solo un datore di lavoro aperto, che ha modo di ricorrere a norme interne flessibili, può trovare una soluzione concordata. Ugualmente, due condomini di cultura e/o religione diversa devono arrivare a un’intesa rispettosa di entrambi, sempre che non preferiscano smettere di vivere nella stessa casa per rinchiudersi in ghetti insieme protettivi e discriminatori, ma parimenti immiseriti.

Quanto alla povera Peppa Pig, non sembra possa fare del male ad alcuno. Lasciamola libera di saltellare su e giù nelle pozzanghere di fango. Immaginare che sia nociva implica una visione ben più offensiva dell’altro, come se ebrei e islamici fossero un ammasso di mentecatti che non sanno distinguere tra un maialino immaginario e la carne di un maiale vero. Il mondo di Peppa Pig mette in scena in un cartoon l’utopia della società multietnica, multiculturale e interculturale, dove tutto è politicamente corretto e nulla non lo è. Tutti gli animali convivono, secondo codici non scritti che regolano la vita comune ma che rispettano le consuetudini di ciascuno.

Il cucciolo di gatto siede accanto a quello di cane a lezione da Madame Gazzella. E il capriccioso George Pig, invitato dalla famiglia Rabbit, all’inizio non apprezza le carote, ma presto impara a essere un individuo convivente e scopre quanto sono buone. Peppa Pig, come a ben vedere anche Paperino, potrebbe semmai offendere gli animalisti, infastiditi da un’antropizzazione del mondo animale altrettanto specista di una civiltà che viviseziona le cavie o uccide gli ermellini per la loro pelliccia. Ma legittimamente, così credo, saranno preoccupati di vietare il sacrificio dei topolini più che la visione di Mickey Mouse. Con buona pace della Oxford University Press.

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