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Cultura

IL POETA DEI CORTILI

SERGIO REDAELLI - 05/06/2015

La copertina del libro di Dante Tagliabue

La copertina del libro di Dante Tagliabue

Ricordo un omone grande e grosso, di carattere mite e dai modi gentili, che una sera rincasando dal lavoro tirò fuori dalla tasca una penna biro che aveva trovato per strada. La porse al figlio, il mio amico Bruno che stava giocando con me intorno al tavolo della cucina e gli sussurrò con voce affettuosa: “Guarda che cosa ho trovato, prendila, l’ho presa per te”. Bruno avrà avuto quindici anni, uno più di me; storse il naso ed ebbi l’impressione che si vergognasse di ricevere davanti a me quel dono così informale.

Come spesso accade nella vita, io e il mio amico d’infanzia ci siamo persi di vista e dopo molti anni ho trovato su Internet un libro di poesie dialettali scritte da Dante Tagliabue, il papà di Bruno, fatte pubblicare dal figlio con una serie di belle illustrazioni del pittore Paolo Fabbro. Naturalmente mi sono affrettato ad acquistarlo.

La raccolta s’intitola Libertà de Penser e rivela un delicato “poeta dei cortili” di quella periferia nord di Milano dove abitai qualche anno da bambino, allegro e spensierato con Bruno e altri amici; un “paesone” agricolo dove la piazza serviva ancora per stendere i chicchi di grano a seccare al sole, dove un violento temporale notturno allagava le strade e faceva scendere tutti in strada con le candele, dove l’arrivo del nuovo parroco era la notizia dell’anno.

Bollate non è lontana dai primi paesaggi varesini, nelle giornate terse si scorge la sagoma del Sacro Monte e si avverte anche nelle parole: “Veggia cort grande e spaziosa… gh’ho tanti ricord in del coer…. Che allegria… se gioegava a toppa, te ghe l’hee, ai quatter canton, la lippa e la bistonda sui moron, che bèll con la rèlla e la corda saltella; quand fioccava quanto solliev, fasevom battali a ball de nev… gh’è pù i pollee, i moroni e’i stall, pù nanca i paisan con carètt e cavall, gh’è pù el ballatoi e la toppia de l’ùga, ma ona bella ringhiera coi pagn che sùga…”.

La delicata vena naif evoca gli angoli e le feste di paese, le partite a scopa d’assi degli anziani all’osteria, l’euforia dell’ultimo giorno di scuola, i piccoli oggetti scomparsi della vita quotidiana, la stufetta di ghisa, gli attrezzi agricoli, le gerle, le more di gelso e la nascita dei pulcini: “Che bèll vardà un òev a sbottonass… vedè el crappin d’on poresin che nass sotta la pitta, al cald in la cavagna, des o dodes ona covada de campagna…”.

Tra le rime emerge il robusto senso civico di un’Italia in via d’estinzione, fondata sulla dignità del lavoro e sul rispetto reciproco: “Man nostran, grossolan… man de lavorador che sgobba con tanta lèna, man sgonfi, morèll pien de geloni che pèna, man ferij, frècc stracch e pien de cai, d’on vegett che tègn la pippa per scaldai…”; e la perduta solidarietà lombarda nei confronti dei forestieri: “El mè car Bollàa del tèmp passàa, dove te se finida con tanta gènt messedada d’alter paes… che hinn vegnù su per lavorà e viv coi bollatees dove han trova ona Bollàa generosa, cordial e operosa. Cordialità scètta e leal, costum del nost paes, col coer in man come disen i milanes…”.

 Scrive il figlio Bruno nella prefazione: “Dopo la pubblicazione della prima raccolta di poesie dialettali, avvenuta nel 1982, papà scrisse più di un centinaio di nuove poesie, sempre imperniate sui ricordi, gli amici, gli affetti, la nostalgia sottile e bonaria per il tempo che non è più; ed altre ne avrebbe scritte, divertenti, schiette e appassionate… ma la morte lo strappò improvvisamente nel giugno 1992 agli affetti della famiglia e alla stima dei tantissimi amici che aveva nei luoghi che descriveva”.

“Era molto contento del suo “status di pensionato” – aggiunge – aveva fatto la gavetta dura, tirato il carretto e “mangiato la ghisa”, di giorno e di notte, poi con la pensione era arrivata la serenità, l’ispirazione e il rapporto ludico con esse, al punto che, con l’ultimo briciolo di lucidità che gli restava a un passo dalla morte, sorridendo ancora metteva in rima dialettale i tristi orizzonti del lettino d’ospedale”.

Non ricordo con quali parole Bruno rispose al padre quella sera nella cucina di casa, ma la raccolta di poesie che ha fatto pubblicare dimostra che accettò con tutto il cuore la penna che il “padre poeta” gli porgeva e che, per il signor Dante, aveva un profondo significato.

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