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In Confidenza

IL DONO DELLA CONSOLAZIONE

Don ERMINIO VILLA - 05/06/2015

L’etimologia della parola “consolazione” risale al termine “solo”; ecco perché “consolare” significa sostanzialmente “stare con uno che è solo”. L’idea è suggestiva, perché tanta tristezza o dolore nasce dall’essere soli e abbandonati, privi di una presenza che ti riscaldi, di una mano che ti accarezzi, di una parola che spezzi il silenzio e asciughi le lacrime.

Aveva ragione il poeta spagnolo novecentesco Pedro Salinas quando scriveva che “le mani di chi ama terminano in angeli,” sono presenze angeliche che spezzano la solitudine dell’infelicità. Non per nulla la parola “desolato” significa in radice “essere solo” pienamente. Come affermava il romanziere Vladimir Nabokov, “la solitudine è il campo da gioco di Satana”, ed è per questo che lo Spirito Santo è detto “il Consolatore”.

In occasione della festa di Pentecoste, il penitenziere maggiore di San Pietro a Roma, rivolgendosi a tutti i confessori e a tutti i penitenti, ha scritto: “Il sacerdote, oggetto di misericordia, non potrà che essere sempre ‘uomo della misericordia’. Per essere esperti di misericordia sarà sufficiente essere “in ascolto” dell’opera dello Spirito Santo in noi e nei fedeli; “in ascolto” del dono della Pentecoste, che ci ha tutti consacrati nel Battesimo, e i confessori nell’ordinazione sacerdotale, e che ci “rinnova” per mezzo di ogni celebrazione dei sacramenti, in modo del tutto particolare in quello della Riconciliazione”.

Per il penitente, il perdono sacramentale rappresenta una vera e propria “Pentecoste per l’anima”, che viene illuminata dalla sua luce divina, purificata nel sangue dell’Agnello immolato e adornata di ogni dono di grazia, a cominciare dalla rinnovata e piena comunione con Gesù.

Per il sacerdote, in quanto profondamente unito a Cristo, termine vivo di ogni accusa dell’uomo peccatore, apprende ogni volta di più il pensiero stesso di Cristo, nel correggere, valutare, guarire e, mentre pronuncia le parole dell’assoluzione, sente ravvivarsi nel cuore, per opera dello Spirito, il sigillo sacramentale e la personale immedesimazione con Cristo Buon Pastore.

L’agnello di Dio, che toglie il peccato del mondo, è il guaritore del disamore: che ci minaccia tutti è l’assenza di amore, l’incapacità di amare bene. Noi, i discepoli, siamo coloro che “seguono l’Agnello” (Ap 14,4).

Se questo seguire lo intendiamo in un’ottica sacrificale, il cristianesimo diventa immolazione, diminuzione, sofferenza. Ma se capiamo che la vera imitazione di Gesù è amare quelli che lui amava, desiderare ciò che lui desiderava, rifiutare ciò che lui rifiutava, toccare quelli che lui toccava e come li toccava, con delicatezza, concretezza, amorevolezza, e non avere paura, non fare paura, e liberare dalla paura, allora sì lo seguiamo davvero, impegnati con lui a togliere via il peccato del mondo, a togliere respiro e terreno al male, ad opporci alla logica sbagliata del mondo, a guarirlo dal disamore che lo intristisce e lo lascia desolato.

Vi mando come agnelli in mezzo ai lupi” vuol dire vi mando a togliere con mitezza il male. “Il cristiano è e deve rimanere sempre agnello e non diventare lupo… Perché se tu sei agnello, Lui ti difende. Ma se tu ti senti forte come il lupo, Lui non ti difende e ti lascia solo e i lupi ti mangeranno crudo” (Papa Francesco).

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