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Stili di Vita

FILOSOFIA NELLA STORIA

VALERIO CRUGNOLA - 05/06/2015

Benedetto Croce e Giovanni Gentile

Benedetto Croce e Giovanni Gentile

Nell’ottobre 1898 Benedetto Croce così scriveva al recente e giovane amico Giovanni Gentile: «A me è parso sempre […] che la filosofia non appartenga al novero delle scienze: che la massima parte di ciò che prima si chiamava filosofia sia stato o debba essere assorbito in scienze speciali. Può esistere il filosofare, per indicare un grado alto di elaborazione scientifica, ma non la filosofia come scienza. […] Se dunque la filosofia non è una scienza, e non è un’illusione, che cosa è? […] A me pare che la filosofia non possa se non recarci alla coscienza ciò ch’è il presupposto di ogni attività razionale dell’uomo, di ogni attività teoretica e pratica. Ciò la distingue dalla religione e dalla scienza; ma ciò anche la rende infeconda (o, ch’è lo stesso, universalmente feconda). Insomma, per me la filosofia si riduce a un: Memento, homo… Ricordati ciò che sei, e non pretendere di ritrovarti in ciò che non sei. Questa non è conoscenza, ma coscienza; e la filosofia ha valore contro gl’incoscienti, e i danni dell’incoscienza».

Ci si chiede spesso quale sia l’interrogazione filosofica per eccellenza. Da queste righe si evince che una tra le tante possibili, e certo quella più costitutiva, riguardi la filosofia stessa. La risposta crociana a questo interrogativo non potrebbe essere più classica, e insieme (con un termine caro al filosofo napoletano) più ellittica. La filosofia è un’interrogazione circa i fondamenti che interroga anzitutto se stessa.

La filosofia non è né una scienza a sé stante né un vano e vago chiacchiericcio, ma è – nel pensiero non meno che nell’agire – il presupposto consapevole di ogni attività razionale e il mezzo più idoneo per contrastare l’incoscienza e gli incoscienti, e ridurne di conseguenza i danni. Essa indaga razionalmente i fondamenti delle attività umane intese a tutto campo, e con questa indagine non solo ci ricorda che cosa siamo ma anche illumina i problemi che tali attività incontrano nel loro porsi e nel loro svolgersi.

Si tratta di una definizione dell’ufficio della filosofia poco consueta nei testi di Croce, sia nella prima parte, decisamente antimetafisica, dove la filosofia appare come esame dei fondamenti del conoscere e dell’agire senza essere a sua volta un sapere autonomo e specialistico, sia nella seconda, decisamente illuministica. La saldatura tra i due punti sembra derivare da Kant; ma si sente anche l’eco dell’«intendere con mente pura» di vichiana memoria. Ma di questo non mette conto parlare. Lasciamo agli storici della filosofia uno studio ulteriore del brano della lettera a Gentile da cui siamo partiti, e vediamo invece in quale misura esso riguarda questa rubrica, che ragiona in senso ampio sugli stili di vita e sui comportamenti umani.

Se accentriamo l’attenzione sul fatto che la filosofia sia una modalità, verosimilmente la più alta, della coscienza, ossia della riflessività degli esseri umani su se stessi, anziché sulla conoscenza, ne viene di conseguenza che essa appartiene possibilmente a tutti. Diversamente dalla conoscenza, che è oggetto di competenze specifiche, rette da studi e da esperienze pratiche convergenti allo scopo di costruirla e di renderla fruibile, la coscienza, la consapevolezza di sé, è alla portata di tutti.

Certamente la conoscenza la agevola; di più, è assolutamente indispensabile. Quanto più la conoscenza è ampia, ricca e organica, e tanto più gli strumenti per esercitare la consapevolezza si accrescono. I sistemi educativi, oggi gravemente deficitari (e non ultimo perché edifici coerenti come quello realizzato in Italia proprio da Gentile sono stati smantellati a favore di scelte confuse e al ribasso), hanno gran parte in questo. Si è accusato la scuola gentiliana di essere nozionistica, addirittura vanamente erudita, chiusa all’esperienza diretta. Dissento in gran parte da questo giudizio troppo severo. Senza conoscenza non esiste nemmeno la problematizzazione, che è l’antitesi, sul piano astrattamente teorico, del nozionismo. I «problemi» verrebbero sviliti, senza possibilità di trovare un’adeguata risposta. Vale il reciproco: senza consapevolezza, senza problematizzazione, la conoscenza è sterile e fine a se stessa.

Oggi è entrato in vigore un modello comportamentista, di origine americana: il sapere è procedurale, e la sua acquisizione discende dall’assimilazione di schemi, anzitutto logici ma alla fine destinati a essere strettamente operativi. Si arriva al mostruoso paradosso di un «saper fare» – il cosidetto know how che ha riempito per anni le nostre bocche – che non sa cosa fa e perché lo fa, che non si interroga sul senso. Come è facile intuire, questo schema dell’era fordista applicato non più soltanto alla costruzione di automobili destinate al consumo di massa, ma ad ogni relazione umana assume un sapore vagamente totalitario: un totalitarismo soft, dove qualcuno ha preordinato i parametri e gli schemi del pensare e dell’agire conseguente in una chiave meramente prestazionale. L’operaio ideale di Henry Ford, uno «scimmione ammaestrato» che esegue sempre lo stesso gesto parcellizzato, è assurto a modello antropologico universale.

La coscienza, la problematicità, quell’interrogazione filosofica che riguarda tutti (a condizione che tutti siano messi in grado di accedere a una formazione di qualità, non settoriale e anzi «integrale», per restare a un termine che Croce e Gentile, oltre che il loro allievo più fecondo, Antonio Gramsci, apprezzerebbero molto) semplicemente svaniscono: irrilevanti e soprattutto inutili. Un lusso, e forse persino un pericolo, perché il potere di chi preordina il nostro saper offrire le prestazioni desiderate verrebbe radicalmente messo in discussione.

La nostra società ha grande bisogno di liberarsi da questo modello, di tornare alle sue radici, che stanno nel pensare prima che nell’operare, e nel pensare criticamente per non operare preordinatamente, con procedure conformate ed eterodirette anche se infine, grazie a un sistema egemonico che non lascia spazio, introiettare e interiorizzate come se fossero il prodotto di una propria libera scelta.

Oggi l’educazione non ha più un ruolo centrale nella formazione di quelle che chiamiamo, qui con molta improprietà di linguaggio, «coscienze». Tuttavia mantiene un ruolo rilevante, soprattutto di bilanciamento rispetto alle dinamiche culturali esterne: in particolare i media, i social networks, il peso di una lunga stagnazione che ha deformato le attese, la pressione conformatrice di molte famiglie che vedono nell’educazione la mera chiave per un successo economico, più ancora che professionale.

C’è molto bisogno, in una parola, di filosofia nel senso che abbiamo visto, di interrogazioni cruciali che vadano diritte ai fondamenti. Un bene sempre più raro, ma che molti governanti ottusi si adoperano non per rimettere in circolazione come un metallo prezioso, ma per diminuirlo, come si farebbe per la circolazione di cartamoneta in tempi di inflazione, per evitare di fare la fine della Germania di Weimar, quando, secondo la leggenda, occorreva una carriola di marchi per acquistare un francobollo… Anche l’accademismo che ha contrassegnato l’esercizio professionale della filosofia ha fatto la sua parte.

È tempo di girare pagina. Nello stesso epistolario, Gentile nel novembre 1898 così risponde a Croce: «Se la filosofia è consapevolezza, questa consapevolezza non è una forma fissa, stabile, definitiva, già trovata, per cui si possa dire: badate che c’è questa superiore consapevolezza, che dovete avere ecc. – Anzi è continua formazione … Ora, se codesta consapevolezza è formazione continua, è già essenzialmente storia».

Lo storicismo, al culmine della sua impopolarità accademica, potrebbe ritrovare un significato per la vita.

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