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Il Viaggio

NAMASTÉ, MAGICA INDIA

GIOIA GENTILE - 03/07/2015

namaste“Un oro, un oro, un oro”. Il piccolo indiano mi trotterella accanto ripetendo l’estenuante cantilena. Quando capisco che mi sta chiedendo “un euro”, gli propino un predicozzo su quanto sia inopportuno mendicare e come sia nobile guadagnarsi da vivere. Inaspettatamente smette di chiedermi soldi e guarda la mia macchina fotografica. Per un attimo penso che stia puntando a un guadagno più sostanzioso, invece gli interessano le foto. Ci sediamo su un muretto, lui mi si stringe a fianco senza timidezza, come fossi una vecchia zia, e sorride felice vedendo scorrere le immagini sul piccolo display: riconosce la sua città e insieme nominiamo in inglese i soggetti fotografati. Quando per il mio gruppo arriva il momento di partire, mi accompagna al pullmino e mi saluta con un velo di tristezza nello sguardo, la stessa tristezza che avverto io pensando che, quando svanirà il ricordo di questo incontro strano e inaspettato, un altro pezzetto della mia vita sarà andato perduto.

Succedeva a Mandawa, cittadina indiana nel Rajasthan settentrionale, ai margini del deserto del Thar. Era l’ultima tappa del nostro viaggio e lo scopo della visita erano le “case dipinte”, dimore signorili i cui muri esterni sono abbelliti da splendidi affreschi. Invece quel che ricordo meglio è l’incontro con questo bambino di 6/7 anni, fratello della nostra guida, e quello con il loro padre, un uomo di età indefinibile, che troviamo fuori da casa sua, in questa torrida giornata di fine luglio, mentre stira pantaloni e camicie con un ferro antidiluviano riempito di braci… E ci sorride, lasciandosi fotografare mentre lo guardiamo sbalorditi.

Ecco, quando penso all’India mi ritornano alla mente anzitutto immagini come queste. I monumenti, le città, i paesaggi si sovrappongono e si confondono. I nomi, inconsueti, sarebbero certamente spariti dalla memoria se non avessi avuto l’accortezza di nominare diligentemente tutte le foto dopo averle trasferite sul computer. Ma le persone, le atmosfere, le condizioni ambientali, così diverse dalle nostre e così piene di contrasti, quelle sono rimaste vive.

L’atmosfera di Pushkar, per esempio, una delle città sacre. Ricca di templi e tempietti, si affaccia su un lago dove i fedeli si purificano, chi immergendosi con religioso rispetto, chi – come i ragazzini – tuffandosi e sguazzando tra grida e risate. I ghat, le scalinate che conducono al lago, sono frequentati, oltre che dai fedeli, da ogni sorta di animali che nessuno osa disturbare e che non disturbano nessuno. I tori ci passano accanto indifferenti anche se siamo vestiti di rosso. Per i vicoli, dove le auto non possono transitare, è un continuo andirivieni di vacche, moto, pedoni, carretti. In un angolo, tra paglia ed escrementi, riposano alcuni dromedari. Dappertutto sporcizia, ma anche, sorprendentemente, profumi; botteghe coloratissime ed altre estremamente povere: il sarto cuce con la sua vecchia Singer a pedale, il panettiere cuoce e vende le sue frittelle all’aperto incurante della polvere, il gelataio prepara granite grattando il ghiaccio a mano. E in mezzo a questo caleidoscopio, le donne incedono con eleganza regale, mentre il velo dei loro sari multicolori si gonfia nel vento. In sottofondo, i canti sacri che provengono dal lago.

Avevo deciso di visitare l’India per i suoi monumenti e invece ciò a cui ripenso con maggiore affetto è proprio questa realtà “secondaria”. Come la lunga strada, lontana dai percorsi turistici, che ci conduce a Mandawa. E’ stretta e diritta, fiancheggiata da campi coltivati ad henné, tra i cui filari lavorano donne avvolte nei loro sari eleganti (uno dei tanti contrasti di questo affascinante Paese). Quando ci fermiamo in un villaggio di contadini, gli abitanti ci accolgono ospitali e sorridenti, ci fanno visitare le loro stalle, ci mostrano i prodotti della loro terra, ci offrono the ed acqua. I bambini, bellissimi e curiosi, ci seguono ovunque. Di una di loro, in particolare, mi colpiscono gli occhi, neri e vivacissimi, illuminati da tutti i riflessi della luce calda che la circonda..

Certo, non posso dimenticare l’incanto del Taj Mahal nella morbidezza rosata del tramonto, o la salita a dorso di elefante verso il forte Amber, in un pulviscolo dorato che mi riporta indietro nel tempo, sui percorsi delle antiche carovane; o il Palazzo dei venti di Jaipur, incredibile edificio costituito solo da una facciata di cento finestre, da dove le donne della corte del Maraja potevano osservare la via sottostante senza essere viste. Ma subito rivedo anche, all’ingresso di questa “città rosa” patrimonio dell’UNESCO, una giostra allestita in mezzo a montagne di rifiuti tra cui adulti e bambini si muovono allegri. E rivedo il ragazzo con le gambe deformate dalla lebbra che ci offre sorridendo le sue cartoline.

Ciò che mi resta nel cuore, di quel viaggio, è la capacità della gente di accostarsi agli altri, nonostante tutto, con la dolcezza e il sorriso, con il rispetto espresso da quel saluto pronunciato a mani giunte sul petto: namasté.

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