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Noterelle

FUGGIRE PER VIVERE

EMILIO CORBETTA - 24/07/2015

Profughi italiani passano il confine italo-svizzero nel 1943 (Archivio di Stato del Cantone Ticino)

Profughi italiani passano il confine italo-svizzero nel 1943 (Archivio di Stato del Cantone Ticino)

Qualche giorno fa su un quotidiano di Varese è comparso in prima pagina un articolo dal titolo:”A Varese nessuno vuole i profughi”. Questo titolo ha provocato un vivace dialogo fra noi, amici anziani, vecchiotti … ma tutti ci sentiamo ovviamente giovani, e per questo siamo sempre in ricerca. Tra noi c’è un’amica che in anni lontani ha vissuto l’esperienza della fuga per sopravvivere e quindi è nata spontanea la domanda :”Ricordi quando vi rifugiaste in Svizzera durante la guerra?”

 “E come posso dimenticarlo” “Ma c’era la neve?” “No! Era una notte invernale, molto fredda, e camminavamo nel buio fuori dai sentieri, in mezzo a foglie secche che crepitavano ad ogni passo, ma noi dovevamo essere silenziosi perché passavamo sotto costa ad un punto di vedetta tedesco. Andavamo molto piano, con circospezione, cercando di far meno rumore possibile, protetti dal buio. Non parlavamo nemmeno sottovoce. Le paure di mesi trascorsi nascoste presso conventi e amici si stavano concentrando in quella notte. Potevano comparire improvvisamente le ombre di militari tedeschi e tutto sarebbe terminato per sempre. Un attimo ci avrebbe buttato nel baratro del nulla. Tutta la vita, che fortunatamente è seguita, non ci sarebbe stata.

Eravamo noi quattro sorelle e la mamma, che portava con sé un foglio intestato del Comune di Varese su cui il funzionario del Comune aveva scritto l’elenco dei componenti della nostra famiglia e che ci dichiaravamo ebrei, così giunti in Svizzera saremmo risultati “rifugiati politici”. Quel foglio era servito per far passare ed accettare prima le sorelle più grandi, poi il fratello, il papà ed infine noi. Il foglio andava e tornava oltrepassando il confine, grazie agli spalloni, e quel foglio è stata la nostra salvezza. Quell’impiegato con la sua penna ci ha salvati tutti, ma con lui tutti quelli che ci aiutarono.

Eravamo partiti alle dieci di sera e siamo arrivati alle quattro di notte. Ad un certo punto l’Annamaria, che aveva otto anni, non ce la faceva più ed allora fu messa in un gerlo e portata giù da uno spallone. Quando arrivammo di là ci lasciarono ad un posto di guardia. Il capitano, vedendo la mamma estrarre il foglio da una scatola di detersivo, si complimentò per il nascondiglio. In effetti se quel foglio fosse caduto in certe mani prima del confine, avrebbe segnato la nostra condanna.
Noi minorenni venimmo mandati presso famiglie disposte ad ospitarci e la famiglia si dovette smembrare. Fu chiesto alla mamma che studi facevamo e su sua indicazione fummo inviati a frequentare scuole d’arte.

Io fui ospitata presso una signora che era pittrice e che mi insegnò tantissimo. Fui molto fortunata e con lei vissi benissimo. Cessata la guerra, quando era possibile ci trovavamo ancora con molta frequenza: un’amicizia durata una vita. Furono anni duri, con grandi paure, con grandi sacrifici, ma in definitiva, anche se furono anni dolorosi, specialmente per i nostri genitori, ho vissuto esperienze positive”.

Lei racconta tutto con molta semplicità, con la stessa semplicità con cui ha vissuto tutta la sua vita. Ancora oggi dipinge, mettendo in pratica gli insegnamenti della generosa signora svizzera, ma si sente ancora giovane perché qualche giorno fa l’ho udita mormorare, di fronte ad un acquerello: “Devo imparare a metter giù meglio il verde”. Se uno vuol ancora imparare, mentalmente è ancora giovane.

Purtroppo oggi quegli anni sono ricordati da pochi perché i testimoni di quei tempi sono stati falcidiati dall’inesorabile trascorrere del tempo.

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